Pensieri su giornate speciali

Il sentimento non è un dovere.

“Christmas was the hardest time.” King- la Casa del Buio 1998

Il Natale rompe il tempo lineare. Lo abbiamo voluto cercato creato. Dalla morte apparente della notte più lunga, attraversando lo sfogo collettivo degli schiavi che mangiano con i padroni fino alla nascita del presunto salvatore. Dare senso al buio. Disegnarci dentro. Con una matita bianca.

Il Natale rompe il tempo lineare e fa esplodere una bomba di suoni. Toglie la pelle e si sente di più. Diventa il tempo della nostalgia, delle mancanze, del dovere. Diventa il tempo dell’attesa, della gioia e dei sorrisi. Il Natale si limita a scoperchiare quello che già c’è. Aggiunge sale e da sapore, ma non crea nulla. Si mescolano i ricordi, le memorie autobiografiche, quelle che manipoliamo e cambiamo continuamente, i momenti belli, le assenze. La memoria lavora fortissimo. E genera un come siamo stati amati. E il Natale lo potenzia. Nel bene e ne male.

Ma i sentimenti non sono un dovere. Non devi sentirti bene felice entusiasta. Puoi. Puoi sentire quello che senti. Che arriverà potente tra le tue orecchie e le tue costole. Puoi ascoltarlo. Viverlo. Parlarci insieme e dormirci la notte. Puoi. Una parola magica che sa di libertà.

Il senso del dover essere qualcosa, invalida e calpestata quello che si sente, genera senso di colpa. Quel buco pieno di fango tra il chi sono e il chi dovrei essere. Senza chiedermi se voglio davvero esserlo.

Il Natale illumina. Del resto, il sole torna ad essere presente, il tempo si srotola, qualcosa si salva. Qualcosa cambia.

A Natale puoi. Eccome. A Natale voglio.

Il Natale rompe il tempo lineare. E con una matita bianca, puoi colorare le ombre sul tuo foglio nero.

Qualsiasi cosa sia il Tuo Natale, che sia Tuo. Che sia quel che vuoi e non quel che devi.

Pensieri su giornate speciali

Di bilanci. Bilance. Tenere. E mettere in freezer

Cosa ti fa sentire nostalgia?

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. Gabriel Garcia Marquez

Mia nonna aveva un pozzetto nel sottoscala. Quello che in qualche film dopo ho visto riuscire anche a contenere un cadavere per poter continuare a riceverne la pensione.

C’era dentro letteralmente di tutto. Rigorosamente in scatole sbagliate. Quelle che guardi, pensi sia un gelato e dentro c’è aglio tritato e arance candite. Funghi trovati verso la fine della seconda guerra mondiale e avanzi di qualche pasqua primordiale.

Le cose che contano stanno sopra. Quelle di cui hai ancora una vaga memoria. Quelle che hai congelato da poco. Sono senza brina e hanno ancora il sapore di quando le hai preparate.

Sotto c’è nostalgia e fastidio.

La nostalgia è una bellissima emozione complessa. Tira fuori i ricordi. Venati di gioia e dolore. Rage and love. Story of my life (citazione per pochi amanti). Siamo nostalgici quando abbiamo tempo di aprire il freezer, guardare la nostra memoria antica e provare gioia nel riviverla. Eppure nella storia, la nostalgia era anche una roba bruttina, una specie di malattia contagiosa e invasiva che teneva la mente imprigionata in qualcosa che è stato e che non è. Ma possiamo essere nostalgici. Senza essere malati. Possiamo perché se Madre Natura ci ha dato in dotazione qualcosa di così meraviglioso, legato ai ricordi, è perché serve.

Il fastidio ha a che fare con la rabbia. Con il dolore. Si sente poco, perché è congelato. Perché lo so che devo tirare fuori quella scatola, buttarla o farne altro. Allora fingo di non vederla. Mentre cerco altro. Ma anche il fastidio parla. Ogni emozione parla. Ogni sensazione ci dice qualcosa che possiamo scegliere di ignorare o affrontare.

Arrivare al 31 dicembre vuol dire aver fatto un altro bellissimo viaggio. Cambiare numero e ricordarci che sotto, in quel freezer, ci sono cose da buttare, cose da tenere, cose da trasformare.

Perché può sempre saltare la corrente. E non possiamo controllare tutto.

Fuor di metafora, al freddo delle nostre memorie, affronta quello che puoi affrontare. Lascia andare quello che non serve. Tieni e trasforma quello che di buono hai fatto. Usa nostalgia e dolore.

Buona fine e buon inizio.

Che poi è solo un punto in bilico in un conto alla rovescia

Liberamente ispirata a tante narrazioni del mio 2024.

#pensieriallacaffeina

Cosa hai fatto quest’estate? Ho fatto sopravvivere il basilico

Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla. Ennio Flaiano

Le stagioni influenzano l’umore. Non in modo uguale per tutti. Non in modo patologico per tutti. C’è chi abbassa notevolmente le sue capacità in estate, chi in inverno, in un’altalena del genere umano che diventa quell’onda violenta dell’Acquafan dove pelle e sudore vengono spinti inermi in una gigantesca massa trasparente.

Ma se possiamo non performare durante l’inverno, tra sci e mare proibito, dobbiamo in estate. Dobbiamo dire in pubblico quante città abbiamo visto. Quanto cibo abbiamo assaggiato. Quanto abbiamo sudato per parcheggiare o parlare in una lingua ignota. Pressione sociale. Pressione social.

Dobbiamo essere abbronzati. Dobbiamo essere magri. Dobbiamo essere belli e dobbiamo girare il mondo.

Io salvo il basilico. Facile farlo quando fuori il sole non corrode l’asfalto. Quando l’afa non invade le vie respiratorie e non brucia i polmoni. Ma è quando il gioco si fa duro che il basilico può morire.

Ed è facile prenotare un biglietto aereo e scappare altrove, ma salvare il basilico no. Subito appare bello e felice nel suo vaso. Ma dopo poco, smette di esser bello. Diventa impegnativo. Devi dosare acqua luce gas libri auto viaggi e fogli di giornale. E salvare il basilico è quel che serve dell’estate.

Fuori da ogni metafora. Lontano dal pesto fatto senza nocciole e altre schifezze, le vacanze, il tempo vuoto, è il tempo per prendersi cura di se. Di quel basilico fragile e delicato. Per capire dove e cosa si vuole essere. E anche dove si vive e non solo si sopravvive, in attesa di un po’ di acqua o di un paio di nuvole passeggere.

Le ferie, le vacanze, l’origine perfetta del significato e la perdita completa e svuotante fatta di foto e di ora tocca a te su Instagram. Riprendiamoci il tempo. Quello della cura. Della pazienza. Della clinica su se stessi.

Dove sei andato quest’estate? In un viaggio dentro di me. Portando a spasso il corpo intriso di mente in luoghi meravigliosi. Siano essi stati la camera da letto, il divano, la punta più estrema di un mondo rotondo.

Vacanza. Essere liberi.

Riprendiamoci il senso della vacanza. Salviamo il basilico.

Ovunque tu abbia passato le tue vacanze, fosse anche in ufficio a pregare per un pinguino più potente, qualcosa è accaduto. Qualcosa è cambiato.

benessere

Le vocine che ti cambiano la testa. Inside out 2

Ciò che neghi, ti sottomette. Ciò che accetti, ti trasforma CG Jung

Ho pianto quando le luci erano ancora accese. Tardavano a spegnerle. Qualcuno è corso fuori a dire che cazzo. Spegnete sta roba.

Meno male. Perché quando piango, piango e basta.

In attesa di Ansia. Perché tutti abbiamo l’ansia. Si. Tutti proviamo stress. Disgusto, rabbia, gioia. Ma Ansia fa più paura. Perché è forma subdola e sottile. Perché devia, travia, fa sudare. Fa finire davvero in quel vortice di pensieri immagini parole libri auto viaggi fogli di giornale. E sarebbe bellissimo che tutto accadesse in modo semplice con un abbraccio facile per fermare il frullatore.

Non sempre. Ma a volte accade.

Ma ho pianto per altro.

Per la potenza semplice di quattro immagini che spiegano il senso del sè.

Sta lì la potenza di come un ricordo di un vissuto forma il chi siamo. Ci ho messo anni a capire e dare forma con immagini alle parole lette, studiate e sudate sui libri. Ed è un albero anche nella mia mente. È sempre stato un albero. Però che cazzo Disney. In 4 minuti hai fatto quello che la mia testa ha fatto e continua a fare da tempo immemore.

Ti ringrazio per le lacrime.

Così nasciamo noi. Parole e momenti che diventano ricordi che si trasformano in radici alla base del nostro io. Che formano rami forti e deboli. Mappe mentali di quello che siamo che ci guidano nel mondo fortificando e a volte strappando quel senso del sé che ondeggia di continuo.

Grazie Disney. E Pixar. Grazie per la potenza delle vostre immagini. Grazie perché non ci sono altri commenti da fare. Da vedere. Piangere. Ridere. Capire.

#pensieriallacaffeina

Ho detto no.

Qual è stata l’ultima volta che hai assunto un rischio? Com’è andata?

Due lettere. Che hanno un potere immenso. Perché sono una matita che disegna intorno a noi i confini. Il chi sono, cosa voglio, cosa amo e come lo amo.

Dire no è rischioso. Perché si perdono costantemente persone intorno a noi che vogliono sentire sempre il nostro si.

Bisogno di piacere. Bisogno di valere. Bisogno di contare per qualcuno. E se dico no, lo perdo. Così mi annullo, non mi ascolto, cerco nelle parole e nei gesti dell’altro quello che può far piacere. E non è un altro a caso. È un altro importante. Qualcuno che vale, che conta, da cui dipendo. E mi strutturo in qualcosa che non sono io. Lascio la matita agli altri. Che mi disegnino pure.

Si, perché si parte da uno e poi diventano nessuno e centomila. Sempre altri a disegnare i miei confini. E il mio vero io, di quello me ne fotto. Non lo ascolto. Lo ignoro. Costantemente. Ma c’è, segreto e nascosto sotto milioni di “si”. Urla in qualche modo la sua presenza. Forte. Fortissimo.

E se ascolto quel sussurro che arriva dal mio profondo, dalle interiora, dalla pelle, mi ritrovo.

Il gesto eroico, per chi funziona così, e non siamo tutti uguali, è il primo no. Quello che funziona. Quello che mi definisce. Quello che mi fa sentire.

Li comincia la salita. Che fantastica storia la vita.

Il primo importante della nostra vita, è il caregiver. Ma nella vita ci sono Altri importanti. Quando un Altro importante per noi, è incostante nel nostro bisogno di amore, crediamo di non andare bene. E ci adattiamo alle sue richieste per non perderlo. Perché è un bisogno l’Amore. Fondante. Fondente. Ma anche diffuso. L’amore è ovunque. Ha tante forme.

Se penso all’Amore, forse credo anche in Dio.

#pensieriallacaffeina

I compiti a casa

Scrivi una lettera a te stesso a 100 anni.

Nella mia stanza accadono cose. In ogni stanza della mia vita accadono cose. Ma nella stanza dello psicologo accadono cose anche agli altri. Anche a me per dirla tutta. Ma questa è un’altra storia.

Nella mia stanza ci si trasforma. Confrontandosi con se stessi. Con quello che si è stato e con quello che si diventerà. Con la mia assurda pretesa di rimanere nel qui e ora. Quel magico spazio dove passato e futuro collassano in un buco nero che diventerà supernova. Non mi interessa sapere se è così o meno. Mi piace pensarlo.

Ma quello che accade nella mia stanza, accade nel tempo dopo. Nel tempo fuori. Come per ogni cibo che si mangia. Accade in digestione.

E in quella digestione lascio spesso i compiti a casa.e la lettera al se stesso invecchiato, c’è spesso. Quella lettera che parla di noi. Che aiuta a capire ora chi vorremo essere, ma anche chi non vogliamo. E quello sta in ciò che non raccontiamo. Perché il non detto ha un potere immenso. Racconta storie e favole silenziose. Parlando di noi.

E nel confronto possiamo fare collassare tutto. E siamo di nuovo nel prendere. Potenziali modi di essere noi a 100 anni.

Provo a sentire il futuro. Quello incerto. Quello che immagina il sole senza pioggia, quello che vuole un mondo senza guerra. Quello che si vede con nipoti, nipotini, unə compagnə rugosə cui stringere forte la mano e vedere il film della propria vita insieme. I capelli bianchi. O semplicemente ancora qualche capello. La somma di tutti i se.

Cara Manuella, chi sarai diventata a 100 anni? Non sarà noiosa la vita senza un lavoro? Avrai foto sparse di te che raccontano di quanto sia bello il mondo? Vivrai al caldo ogni giorno guardando il mare? Spero di si. Anche che ti annoierai. E nella noia inventerai racconti. Di sicuro non avrai imparato a disegnare. Ma a far sognare, spero di sì.

Manuella Crini

Psicologa

#pensieriallacaffeina, Pensieri su giornate speciali, Senza categoria

Amati. Almeno un po’

Amare sé stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta una vita

Oscar Wilde

Una delle più orrende bugie che ci propinano è che per essere amati serve prima imparare ad amare sé stessi. Che cazzata. Epocale. Mi può amare chiunque anche se io mi schifo. Beh, sto meglio se mi amo. Almeno un po’. Ma anche se io non mi amo, anche se mi schifo, qualcuno che mi ama in qualche parte del mondo, c’è. E forse attraverso i suoi occhi imparerò anche io ad amarmi per quella che sono. Ad avere il coraggio di farmi schifo ogni tanto. A prendere per buoni i miei pregi, ad avere il coraggio di accettare quello che non posso cambiare. Del resto noi amiamo anche il brutto. Il pannolino sporco, il vomito addosso senza correttore, il corpo perfettamente imperfetto e i segni del tempo.

Amati per quel che riesci. Metti amore dove riesci. E congratulati con te ogni volta che lo fai. E va bene anche se non hai voglia di star solo. Perché siamo animali sociali e l’equilibrio nella nostra solitudine è solo nostro.

Smetti di rincorrere tutti gli ideali, scrollati di dosso quello che non ti va. Ridi, corri, ascolta musica. Goditi il tempo con te e con gli altri. Guardati allo specchio e cerca un difetto e compensalo con un pregio. Che tanto sono solo parole. Mai assolute. Il mio peggior difetto può essere quello che l’Altro vede come mio miglior pregio. È tutto relativo se ci metti amore.

Amati solo un po’, fallo oggi. Anche una piccola parte di te. Guardati come il cane guarda la ciotola del cibo. Come il gatto guarda la scatola che contiene il regalo che hai comprato per lui.

Buon San Valentino al sapore di cioccolato e caffè

Pensieri su giornate speciali, Senza categoria

I bilanci di Natale

Se ci diamo la mano
i miracoli si fanno
e il giorno di Natale
durerà tutto l’anno – Gianni Rodari

Tra le scadenze burocratiche di fine anno prende il sopravvento in maniera potente il bilancio di fine anno. Non c’è nessun commercialista che ne chieda conto, ma diventa un automatismo spinto anche dai buoni propositi che imperversano e che resteranno fermi fino a settembre.

Caro Babbo Natale, sono stato davvero buono? Ho saputo rispettare me stesso come merito? Tu che tutto puoi, che tutto osservi, mi sai dire se davvero ho passato un anno comportandomi bene e quindi mi merito i regali che ti sto chiedendo? Posso avere un po’ di felicità nell’anno che sta per arrivare?

E così Babbo Natale diventa un me stesso con cui parlo, divento io l’osservatore di me stesso, un osservatore che non scappa comunque dai meccanismi più antichi e guarda inizio e fine dell’anno passato, dimenticando il “costruire” che sta all’interno e non me ne voglia Niccolo Fabi, ma inizio e fine sono due aspetti che facilmente ricordiamo. Quello che sta dentro, a meno che non sia crema al mascarpone dentro al pandoro (a me il panettone non piace e chiuderei qui la diatriba inutile), lo scordiamo.

E allora facciamo questo dannato bilancio, sforzandoci anche di ricordare i mesi centrali. Ma come si fa? Come analizzo tutto quello che mi è accaduto in 365 giorni in modo da poter pianificare i venturi in modo che io possa raggiungere vette del benessere ancora inesplorate?

Per far un bilancio servono operazioni, non chirurgiche, ma quasi. Matematiche soprattutto, fatte di somme e sottrazioni. Chi ero e chi sono. Chi volevo essere e chi sono diventato.

Cosa mi ero proposto lo scorso anno? Che avrei fatto palestra? Che avrei lavorato di più o di meno? Che avrei trascorso più tempo in famiglia? Che avrei potato rami secchi?

Partiamo da lì, cose semplici. Che nascondono molto di noi, del nostro ideale. Del nostro Natale.

Niente Grinch per quest’anno. Perché tanto anche lui ama il Natale. Ne ha avuto uno. Senza saperlo ma non senza volerlo. Cerchiamo il Natale dentro di noi. Quella rinascita anche piccola che ci farà sorridere tra 365 giorni.

L’ augurio fatevelo da soli, non perché ne sia a corto, ma perché ognuno di noi sa cosa volere per se stesso. E se non sa come ottenerlo, il primo passo è capire se qualcuno intorno a noi, o anche più lontano, può aiutarci a togliere la nebbia e vedere la strada. Siate Babbi, (non troppo ma nemmeno troppo pochi) siate Re Magi.

Buon Natale

Manuella

#pensieriallacaffeina

auto- di se stima- aes misura di un valore

L’acqua cade dall’alto al basso, è la forza di gravità. Anche le emozioni forse agiscono secondo la stessa legge. T. Kawaguchi

Chi è il metro di me stesso?

William James ha definito per primo un concetto così complesso come il metro di sé stesso come un rapporto. Tra il Sé percepito e il Sé ideale. Più ci avviciniamo all’uno, più la nostra valutazione schizza alle stelle. Un PIL pazzesco che ci riempie di dopamina. Quell’uno sembra ogni tanto così lontano che il bicchiere diventa un quarto pieno.

Le variabili in gioco sono due. Un sé ideale, che costruiamo nel tempo, in base alla nostra storia di vita, alle aspettative che lentamente si sono insinuate nelle nostre sinapsi e un sé percepito, che in quanto tale, non per forza corrisponde al dato oggettivo, e qui tornano in ballo costantemente i legami affettivi precoci, quanto ci hanno valorizzato, quanto ci hanno aiutato a percepire i nostri confini. Ma non vuol dire che se non ci hanno costantemente detto che siamo bravi, buoni e belli allora abbiamo un pessimo senso dei nostri confini. E non vuol nemmeno dire che i nostri genitori siano causa di tutti i mali. Ci sono tante figure importanti che noi incontriamo nel nostro cammino e a volte è il semplice sguardo sconosciuto a farci perdere forza nelle nostre stesse convinzioni. Altre è un partner devastante, ma non è questo lo spazio da dedicare a narcisisti e co. che a volte si palesano sulla strada.

Autostima. Buffo pensare che se ce l’hai, va tutto bene e se manca allora è un disastro. In realtà abbiamo tutti quella costante valutazione di noi stessi. A volte è positiva, altre volte vacilla.

Quindi chi è il metro? Noi. E solo noi. Ma noi siamo animali sociali, inutile negare la profonda influenza degli altri nella costruzione del nostro personalissimo metro. Tutto gira intorno a quello che abbiamo definito essere il Sé ideale. Quello cui vorremo inesorabilmente assomigliare. Può essere un Sé raggiungibile, o può essere così distante da quello che siamo o da come ci percepiamo che viviamo deludendoci ogni giorno. Il Sé ideale contiene non solo quello cui aspiriamo ma si porta dietro anche ciò che non vorremmo mai essere e giudizi che vanno in tal senso, usciti dalla testa e dalla bocca da chi per noi è importante, può essere profondamente dilaniante.

Ma torniamo a noi, che il caffè è quasi freddo. La domanda era: perché in alcune situazioni mi sento profondamente fuori luogo? Perché sento che il mio modo di essere non è quello che mi e si aspettano che sia. Come se fossi vestito da rugbista ad una serata di Gala. Che poi, può anche capitare, ho interpretato male l’invito, ma il più delle volte è il non sentirsi all’altezza della situazione, con una valutazione di sé molto negativa, rafforzata spesso da memorie e ricordi in cui siamo stati denigrati in modo diretto, o peggio, in maniera subdola, senza possibilità di ribattere.

Come fare?

Come al solito stiamo ancora lavorando alla pillola magica, ma nel frattempo, io partirei da una visione diversa del proprio Sè percepito, provando a guardare quei confini che spesso sono disegnati dai nostri valori, quindi cercherei di capire quali sono, se li rispecchio, se poi davvero li ritrovo nel mio Sé ideale. Aumenterei le mie skills, e partirei sempre da quella roba che tutti schifano, le emozioni. Mi ascolterei. Ascolterei il mio corpo, il tempio della mia mente. Che spesso mi parla ma io testardamente, ignoro.

Il caffè è freddo, devo tornare nel mio tempo.

La dottoressa Manuella Crini beve spesso caffè. Pare abbiano un buon effetto anche in termini preventivi di alcune malattie neurovegetative. Se non si esagera. Come tutto.

#pensieriallacaffeina, Pensieri su giornate speciali, Senza categoria

Pasah. #pensieriallacaffeina

Passare oltre. Ri-nascere. Sacrificare.

Quanti significati racchiude la Pasqua. Condotti ad un uovo di cioccolato che viene rotto in trepida attesa da un bambino, o da occhi di bambino.

Attesa.

Negli ultimi due anni è diventata anche questo. Attesa che il mondo riparta. Come se si fosse fermato. Imperterrito ha continuato ad avvolgersi su se stesso. A girare intorno al sole. A far germogliare semi. A guardare nascite e morti.

È tornata ad essere sacrificio. Enorme. Per due lunghe attese che qualcosa cambiasse. E sta cambiando. Non so ancora in che direzione.

Perché non si è fermato. Non ci siamo fermati. Siamo cambiati. Nel bene. Nel male. Come se fossero termini assoluti che racchiudono incredibili dogmi. Ma sono contenitori di contenuti che possiamo solo riempire noi.

Qualsiasi cosa vogliamo essere, possiamo continuare a volerlo. Possiamo riempire il bene di tante cose. Buone e belle per noi.

Passare oltre

Ripartire

Rompere l’uovo. Tirar fuori la vita

Auguri

Manuella