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Accadde in carrozza

Descrivi un incontro casuale con uno sconosciuto che ti ha impressionato positivamente.

Il fascino di chi non conosci, sta tutto nel fatto che non lo conosci. È uno splendido foglio bianco su cui dare vita ad un disegno meraviglioso.

Ci metti tutto quello che ti piace. O non ti piace. Ma il titolo è chiaro, we are supposed to be positive. Per cui ci metto dentro le mie passioni. E so, fortissimamente so, che ama quello che amo io, che ci saranno cose meravigliose se solo potessimo costruire un futuro fatto di tempo sospeso insieme. Ci metto dentro i miei desideri, le mie aspettative, e condisco tutto con un buon soddisfacimento dei miei bisogni. Anche di uno. Uno a caso. È un etto e mezzo, che faccio? Lascio? Lasci pure.

In quel foglio cancelliamo il passato, ma le tracce della matita restano. E scavano i solchi. Che cerchiamo di mascherare affinché quel disegno non vada mai più nella direzione del prima. Avrà linee più armoniche più belle più mie. Ma su quei solchi la matita inciampa. Perché il passato non passa quasi mai. Collassa nel presente e lo solca come le rughe di quel cubano. Quello sconosciuto di cui ho parlato altrove, con occhi di ghiaccio e pelle di ebano. Con età indefinita che sapeva di storia lunga. Di dolori e gioie. Di sorrisi difficili e di perdite mai superate. Eccolo, lo sconosciuto. Lo ricordo ancora. Seduto su un muretto rotto dal tempo e dalla noia. Con rughe profonde, un quadro perfetto. Un sorriso importante. Non poteva che aver avuto una vita meravigliosa. Veniva voglia di sedersi lì, di farsela raccontare la sua vita. Ma immaginarla è ancora meglio. Perché decido io.

Che belli gli sconosciuti. Hanno il fascino del per sempre.

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Come se ridere fosse solo allegria

Cosa ti fa ridere?

Una piccola mandorla nel cervello. Amigdala. Con tante funzioni da sembrare un cervello matrioska. Produce adrenalina. Quella roba che da potere e non fa sentire il dolore.

Contrae i muscoli. E fa ridere. Perché anche per ridere serve quella contrazione. Involontaria. E allora respiri. Smetti di ridere. Entri in contatto con le tue emozioni e a volte ti disintegri. Così la risata ti salva dalla disintegrazione. Tiene insieme i pezzi di te.

Mi fa ridere stare nello stress. Nell’imbarazzo. A volte nel dolore.

E allora rido. Dissimulo. Gestisco lo stress. Ignoro volontariamente o meno quello che mi accade.

Dietro una risata ci sono tanti mondi. A volte dolore. L’abito non fa il monaco e la risata non fa la felicità.

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I compiti a casa

Scrivi una lettera a te stesso a 100 anni.

Nella mia stanza accadono cose. In ogni stanza della mia vita accadono cose. Ma nella stanza dello psicologo accadono cose anche agli altri. Anche a me per dirla tutta. Ma questa è un’altra storia.

Nella mia stanza ci si trasforma. Confrontandosi con se stessi. Con quello che si è stato e con quello che si diventerà. Con la mia assurda pretesa di rimanere nel qui e ora. Quel magico spazio dove passato e futuro collassano in un buco nero che diventerà supernova. Non mi interessa sapere se è così o meno. Mi piace pensarlo.

Ma quello che accade nella mia stanza, accade nel tempo dopo. Nel tempo fuori. Come per ogni cibo che si mangia. Accade in digestione.

E in quella digestione lascio spesso i compiti a casa.e la lettera al se stesso invecchiato, c’è spesso. Quella lettera che parla di noi. Che aiuta a capire ora chi vorremo essere, ma anche chi non vogliamo. E quello sta in ciò che non raccontiamo. Perché il non detto ha un potere immenso. Racconta storie e favole silenziose. Parlando di noi.

E nel confronto possiamo fare collassare tutto. E siamo di nuovo nel prendere. Potenziali modi di essere noi a 100 anni.

Provo a sentire il futuro. Quello incerto. Quello che immagina il sole senza pioggia, quello che vuole un mondo senza guerra. Quello che si vede con nipoti, nipotini, unə compagnə rugosə cui stringere forte la mano e vedere il film della propria vita insieme. I capelli bianchi. O semplicemente ancora qualche capello. La somma di tutti i se.

Cara Manuella, chi sarai diventata a 100 anni? Non sarà noiosa la vita senza un lavoro? Avrai foto sparse di te che raccontano di quanto sia bello il mondo? Vivrai al caldo ogni giorno guardando il mare? Spero di si. Anche che ti annoierai. E nella noia inventerai racconti. Di sicuro non avrai imparato a disegnare. Ma a far sognare, spero di sì.

Manuella Crini

Psicologa

Pensieri su giornate speciali

Non si chiama festa della donna

Ma io me ne frego e la chiamo così

Le donne sono servite, in tutti questi secoli, come specchi che possiedono il potere magico e delizioso di riflettere la figura di un uomo a due volte la sua grandezza naturale

Virginia Woolf

Sono tutte belle le donne. Eccome. Ognuna con la sua forma. Ognuna con le sue idee. Ognuna con il suo talento. Così diverse. Perché è nella diversità che si cerca l’uguaglianza. Eppure no. Eppure genera fastidio che qualcuna stasera vada in minigonna e rossetto rosso a cena con le amiche.

Perché giudichiamo. Sempre. Ed è bello giudicare. È di vitale importanza. Per poter scegliere. Per potersi esprimere. Ma quando deformiamo il giudizio e lo riteniamo armageddon, allora no. Allora il giudizio fa schifo perché incasella in stereotipi che in fretta diventano violenza.

E ci siamo cresciute tutte dentro. Che devo saper cucinare, pulire casa, servire e occuparmi del portatore di pene. Ma non quelle, no, proprio quello. Il santo Pene. Quello che non abbiamo e allora viviamo castrate per un’assenza che anche la biologia nega. Già. Perché non abbiamo una costola in meno. Ma un potere in più. L’utero. Il maledetto utero che qualcuno vuole gestire e sottoporre a scelte non mie.

Essere donna è difficile. E poco importa se oggi festeggiamo o ci fermiamo a pensare a diritti che in fondo non ci sono. Perché finché necessitiamo di un giorno per ricordarlo, è perché quel diritto non c’è.

E dentro quel giudizio, cresciamo. E la mente si forma e si plasma e decide che è giusto così. Che sono donna senza pene. E allora scelgo la pena. La sofferenza. Scelgo una carriera che si concili con la genitorialità, e se non riesco, rinuncio. Scelgo di fingere un orgasmo, scelgo che mi vada bene se lui lo ha avuto e io no. Scelgo di truccarmi per uscire. Scelgo i vestiti che simulano forme. Scelgo che vada bene. Perché in fondo lo penso perché sono cresciuta immersa in un ambiente così. Dove penso sia giusto così.

Ma se non fossi stata imbevuta di questa roba? Che sarebbe della donna? Quella che sceglie il pretendente migliore per procreare? Non lo sapremo mai. Perché ormai la nostra natura è fusa con la società. Con le società. Ma in quasi tutte, la donna sta alle spalle. Dietro ad un pene. Una spugna. Due sacchetti.

Quindi continuiamo a festeggiare. Che sia la pizza in minigonna, che sia la protesta in piazza. Che siano i pop corn sul divano senza aver lavato i piatti. Perché nella festa c’è rumore e nel rumore c’è la voce. C’è la libertà di voler esser ciò che siamo. E per farlo va cambiata la società. Per metterci in ammollo le nuove generazioni. Quelle ancora pure, quelle per i cui i circuiti neurali possono ancora prendere forme diverse.

Perché siamo diverse. Anche dai portatori di pene. Ed è meraviglioso così. Ma essere profondamente diversi non vuol dire che qualcuno sia migliore o meriti di più. O di meno.

E un grazie a tutte le donne che si sono scrollate di dosso il “non puoi” . E tu puoi essere una di quelle.

Buona mimosa a tutti

Manuella Crini

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Un epitaffio. Sepolcrale. Soffrire sperando.

Stai scrivendo la tua autobiografia. Qual è la frase di apertura?

La frase di apertura è il pianto. Quando i polmoni iniziano il loro arduo lavoro. Che il cordone non impedisce nemmeno se si annida intorno al collo. Perché semplicemente prima, non respiravamo.

Ma è la frase finale quella che conta. Il riassunto di una vita intera in sintesi. Nasci. Muori. È quello che sta in mezzo che conta. Hai vissuto secondo i tuoi valori? Sei stato felice? Hai amato con tutte le farfalle?

La frase di apertura della mia vita dovrebbe essere il sunto finale della mia vita. La parola fine che precede l’inizio.

Perché anche le nella vita l’ansia è spesso fedele compagna, nessuno vorrebbe esser dentro un thriller. Ma nemmeno nel romanzo rosa. O nelle favole. Perché resta sempre tutto a metà. Ma la vita è dopo il caso risolto, dopo aver trovato l’amore, dopo aver indossato la scarpetta. È lì che inizia la salita. E il panorama è bellissimo.

Quindi dovrò aspettare che la vita mi scorra davanti. Sperando sia un bel film. Con punti di noia e risate. Con momenti in cui servire e tornare indietro per capirli davvero. Pentendomi di non aver imparato prima a restare qui e ora. Sempre.

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Somatotropina

Quali esperienze nella vita ti hanno aiutato a crescere di più?

Dormire.

E potrebbe finire così. Con una parola. Perché pensiamo troppo spesso che subire traumi aiuti a crescere. Che grande cazzata. Per crescere in modo sano, non solo aiutando la fisiologia, è necessario avere esperienze di vita gratificanti e non traumatizzanti. Avere una base sicura. Genitori capaci di essere un porto in cui tornare. Che non siano spazzaneve o neglettanti. La normalità è quello che aiuta nella crescita sana. Il resto accelera o rallenta il raggiungimento di un equilibrio.

Se il sonno della ragione genera mostri, il sonno delle emozioni genera adulti mostruosi.

Ogni esperienza segna. Ma le cicatrici spesso fanno male. E non sempre dai traumi si guarisce.

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Credo nel caos

Credi nel fato/destino?

Il destino fa pensare ad una storia d’amore. Quella cui siamo destinati. Quella cui dobbiamo a tutti costi sottostare perché la metà della mela ci aspetta. Il destino. Inevitabile. Contro cui nulla puoi.

Che idea depotenziante. Che idea del cazzo. Quella per cui non possiamo nemmeno scegliere chi scegliere. Quello per cui non possiamo decidere con chi condividere i capelli bianchi e le rughe profonde.

Credo nel caso. Anzi. Nel caos. Quello per cui siamo lì, tra mille potenziali e siamo solo in uno. E in quel potenziale esprimiamo tutta la nostra poca libertà di decidere. Nel caos.

L’amore è nel caos. L’amore è caos. E se fossimo destinati saremmo felici. Ma non sempre lo siamo. Spesso no. Siamo caotici però. Tanto.

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Adolescenza.

Che consiglio daresti a te da adolescente?

Che bella l’adolescenza. Quella trasformazione continua e verso la quale siamo totalmente impotenti.

Qualsiasi cosa venga detto ad un adolescente, viene tradotto e riletto. Perché spesso c’è il bisogno di fare l’esatto opposto. La madonna con la pistola. Il mio compito arduo di un’adolescenza emo era quello di diventare me stessa. E da bionda diventai nera. Poi blu. E parte di me lo è ancora. Insieme alla me bambina, c’è la me ribelle. Che andava bene a scuola e faceva battute irriverenti. E nei confini elastici che i miei genitori mi mettevano, forse proverei a dirmi che va bene così. Rischiando l’effetto opposto. Perché tanto non mi ascolterei. Mi vedrei vecchia e antipatica.

Farei parlare Margared Mead. Che con i suoi 23 anni ha avuto l’onere e l’onore di andare fuori dalla globalizzazione a conoscere quel periodo della vita al quale tutti vorremo tornare. Per restare o per cambiare. Dove le sinapsi aumentano e poi decrescono. Dove nemmeno i neuroni hanno pace. Dove tutto è in potenza, e aspetta solo di fiorire. Un’apoteosi indomita di fede e rigore che si arma controvertendo le regole.

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Tra cognizione ed emozione

Cosa ti annoia?

E chi la conosce più la noia? Con uno smartphone in mano, diventa uno stato, che oscilla tra i lobi frontali ed il sistema limbico, che non ascoltiamo più. Tra foto e video e reel e altre cose di cui devo ancora imparare il nome, ignoriamo la noia. Eppure vince a Sanremo. Perché la noia è qualcosa che parla. Che crea un vuoto indispensabile per farci prendere i pennarelli e colorare dentro e fuori i bordi.

Ma come tutte le emozioni, se non la ascoltiamo, se la ignoriamo, lei continua silenziosamente a guidare il nostro comportamento verso un abisso di apatia.

La noia è bella. Come lo è la tristezza. La rabbia. Il disgusto. La vergogna. E la sua bellezza sta nel potenziale comunicativo che ha con noi. Perché parla di noi. Ma ignorare, ignorare è brutto. Perché non ci si ascolta. E così il disegno resta vuoto. In bianco e nero. Senza sfumature.

Annoiati consapevolmente. Ascoltati. E colora

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Che domanda @manusbirra

Qual è il tuo drink preferito?

Amara. Fruttata. Caffettosa.

La birra porta con sé il sapore della trasformazione del luppolo. Altro che baco che diventa farfalla.

Basta il rumore del tappo che si alza per sentire già il sapore. Che strana cosa. Le associazioni mentali. Tra aree diverse del nostro cervello. Rumori, odori, sapori. Memorie.

Quel profumo che ricorda la nonna, per me quello del burro che si impasta con la farina e la vedo che sorride con il suo perfetto grembiule legato con eleganza e maestria guadagnata negli anni di vita. Quando era più difficile. Col cazzo che era più facile. Fatela voi la guerra. Fatela voi la fame. Fate voi i genitori guidati da stregoni che segnano i vermi quando il bambino piange.

Ecco come funzioniamo. Ho immaginato un cavatappi e sono finita a pensare alla vita della nonna. A ringraziare silenziosamente la sua storia che ha permesso la mia. Associazioni, catene di ricordi. Che lasciano il sorriso o l’amaro in bocca.

Come la birra.

Ho chiuso il cerchio