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A Natale puoi. Almeno a Natale non dovere sempre.

  • Cosa chiedi a Babbo Natale?
  • L’estate

Qualsiasi forma abbia avuto in origine in Natale, lo immagino umile e intorno al fuoco, con poco cibo e nessun albero decorativo pieno di carta patinata. Abiti color mattone, grembiuli sporchi e facce stanche. Poi la mia mente vola agli anni ’50, alle famiglie delle pubblicità, con la piega sempre a posto, la cucina linda e la tavola imbandita. Mancando i cellulari non era così semplice augurare buon Natale agli amanti.

Ora lo immagino al supermercato, a cercare il piatto che esca dalla tradizione rimanendoci dentro, utopico come il regalo perfetto. A cercare ii regali anche su Vinted o Tik Tok, in ansia per il look perfetto delle feste. Poi immagino il Natale in solitudine, che magari vuoi anche ma che fa talmente strano volerlo che ci si deve sentire soli perché senza un tavolo cui sedersi. Tavolo con rigorosamente 40 parenti che non vedi da almeno un anno, pronti a far domande indiscrete che nemmeno il prete osa fare. Immagino il Natale silenzioso delle famiglie che vivono difficoltà, in cui nel piatto si spolverai tiramisù con la vergogna di non avercela fatta. Povero Gesù, che pandemonio per un compleanno per lui senza regali.

Ha tante facce il Natale. E un dono potente. Esplosivo, far sentire in maniera amplificata tutte le sensazioni, tutte le mancanze, tutto quello che si voleva essere e non si è. Il giorno del giudizio. Il nostro su noi stessi. Esistono molte guide su come sopravvivere al Natale, ed è buffo pensare di dover sopravvivere ad una festa, non ci sono guide su come sopravvivere a Ferragosto. Quindi forse il trucco è non cercare una sopravvivenza, perché non è un pericolo. E finché lo viviamo come tale è inevitabile che nel cervello si attivi quel campanello che urla “allarme” e fa salire l’inevitabile ansia.

Prova a fare quello che ti senti, non quello che sentono gli altri, che tanto fanno anche loro quello che sentono altri creando circuiti incredibili di aspettative e sensi di colpa senza delitti compiuti. Altrimenti si evira il Natale di quel senso di tavola umile e volti stanchi che cercano il riposo in un giorno di festa tra altri volti stanchi. Prova a fare solo i regali che senti, prova a cercare quelle sensazioni di quando eri bambino, della magia del Natale, prova a chiederti cosa vuoi, cosa vuoi tu davvero e non cosa si aspettano gli altri che abitano nella tua testa. Prenditi cura di te, non dell’immagine che vuoi che sia stampata nella mente altrui. Prova a parlare con quelle emozioni che senti, che ci sono sempre, ma sono meno propense a gridare. Prova a dargli un senso, a capirle, perché le emozioni sono quanto di più razionale abbiamo. Prova a surfare su quelle onde negative, senza che abbiano il sopravvento.

Di consigli pratici è pieno il web, il vicino di casa, il panettiere. Ma cosa vuoi davvero, quello lo sai solo tu. E una volta che lo focalizzi, cerca di raggiungerlo. Vuoi passare il pranzo a mangiare? Fallo. Vuoi andare a correre? Fallo. Vuoi che sia un giorno normale? Trasformalo in un giorno normale.

Non dobbiamo essere più buoni solo perché una frase del panettone (o pandoro) ci chiede. Possiamo essere noi stessi anche a Natale.

Ance a te e famiglia

Manuella Crini

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Di fango e solidarietà

Pratica gesti casuali di gentilezza e atti insensati di bellezza. A. Herbert

Solidarietà. Un sentimento sociale. Perché le emozioni di base sono favolose ma sono altamente individuali, e poi riescono a combinarsi nella magia delle connessioni sinaptiche e ad un certo punto prendono vita le emozioni complesse che presuppongono il continuo confronto con il mondo relazionale.

L’amore si dimostra con le azioni, e nella solidarietà si esprime una reciproca considerazione di condivisione di interessi.

La spinta alla solidarietà è il senso di appartenenza. E l’appartenenza è un insieme di cerchi concentrici che si stringe intorno a quella che è la famiglia. Ma nei cerchi più ampi la famiglia si allarga. Si condividono idee interessi e obiettivi.

Esser solidali fa bene. Praticate gentilezza fa bene. Alla mente e al corpo. Modifica la pressione sanguigna, abbassa il cortisolo e modifica positivamente le endorfine.

Guardare la solidarietà cambia la prospettiva del mondo. Amplifica il senso di appartenenza a quella famiglia. Fa bene alla coppia e a tutti i membri del gruppo.

Che il corpo risponda su una sensazione mentale, lo trovo semplicemente meraviglioso. Le endorfine aiutano a superare la drammaticità di quanto sta accadendo intorno e il cuore si calma. Lo stress diminuisce. Perché un altro essere della mia specie, mi fa sentire in famiglia.

4-10-2021 tra fango e cose rotte ho visto cose belle – QUADA

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Pasah. #pensieriallacaffeina

Passare oltre. Ri-nascere. Sacrificare.

Quanti significati racchiude la Pasqua. Condotti ad un uovo di cioccolato che viene rotto in trepida attesa da un bambino, o da occhi di bambino.

Attesa.

Negli ultimi due anni è diventata anche questo. Attesa che il mondo riparta. Come se si fosse fermato. Imperterrito ha continuato ad avvolgersi su se stesso. A girare intorno al sole. A far germogliare semi. A guardare nascite e morti.

È tornata ad essere sacrificio. Enorme. Per due lunghe attese che qualcosa cambiasse. E sta cambiando. Non so ancora in che direzione.

Perché non si è fermato. Non ci siamo fermati. Siamo cambiati. Nel bene. Nel male. Come se fossero termini assoluti che racchiudono incredibili dogmi. Ma sono contenitori di contenuti che possiamo solo riempire noi.

Qualsiasi cosa vogliamo essere, possiamo continuare a volerlo. Possiamo riempire il bene di tante cose. Buone e belle per noi.

Passare oltre

Ripartire

Rompere l’uovo. Tirar fuori la vita

Auguri

Manuella

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L’importanza di vomitare

Il corpo si libera di quello che potrebbe nella sua tossicità ucciderlo. È un ruolo importante è giocato dal midollo allungato. Il sistema nervoso, ha sempre un ruolo. Quasi. Ma a me piace pensare che ne abbia sempre uno.

Prima di vomitare, si sta male. Dopo, si inizia a star meglio. Vomitare pensieri è cosa diversa. Tirar fuori tutto quello che dentro può diventar tossico o pericoloso, può in apparenza far sembrar pericoloso anche quello che sta dentro, una volta tirato fuori. E allora teniamo tutto dentro, temendo che una volta tirati fuori i nostri mostri, possano aver vita propria e distruggere il nostro mondo intorno. Ma fuori da noi, i mostri non sopravvivono. Riusciamo a vederli. A capire che forma abbiano. Come tutti i mostri, fuori dal letto, non sono così spaventosi come quando sono nascosti sotto.

Non sempre è facile vomitare i pensieri. Non sempre il luogo e il tempo in cui ci si trova sono spazi adatti. Ma dentro crescono. Si nutrono e si ingarbugliano. Creano crepe. Arrivano fino alla punta delle dita.

Fanno battere il cuore e accorciano il fiato.

Un punto che sembra morto. Come se il punto potesse morire. Ma dopo il punto c’è uno spazio bianco. In cui si può iniziare a scrivere al Mostro che non si riesce a vomitare. Guardarlo un po’ in faccia. Vomitare parole dopo il punto. Che non è morto. È solo una pausa un respiro.

Forse dopo aver vomitato servirà stare fermi un po’. Ascoltare di nuovo il corpo. Dopo aver vomitato i pensieri forse servirà star fermi un po’. Ascoltare di nuovo la mente. Con tutto il tumulto di emozioni che tira fuori. Ascoltarle. Viverle. Lasciarle andare.

Auguri Richy.

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di Manuella e dei suoi 5 minuti

Perdo facilmente il conto, dei giorni delle ore, dei calzini nel cassetto. In questo tempo così svuotato e difficile ho trovato una continuità essenziale nei 5 minuti che ho condiviso con voi. Ho trovato la continuità lavorativa anche mantenendo attivo il piano della progettualità, la memoria prospettica, quella che rimanda ad un futuro incerto e difficile. Quindi grazie Leo, grazie Fabio, grazie a tutto il gruppo BeGood, che non potendo entrar noi in palestra, sono entrati loro nelle nostre case. A tutte le ore, con il sorriso, il movimento, la gioia e le sfide.

grazie

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Di paure imperiali con la Corona

Psicosi.

Panico.

Paura.

Conosco questo aspetto della psiche umana. Meno come funzioni un virus nel nostro corpo. A ciascuno il suo. Ma so che la paura smuove verso azioni che salvano la vita. Quindi non dirò di non aver paura. Assolutamente. Dirò di non farsi prender dal panico, la psicosi per fortuna è altro.

Come si fa? Non sempre le conoscenze fredde, quelle logiche sono sufficienti a frenare la paura e far sì che non dilaghi in panico. Perché poco potere hanno sui circuiti cerebrali delle emozioni. Non sempre funziona. A volte si. Per cui raccontarsela un po’ con i dati che ci dicono che nella maggior parte dei casi andrà tutto bene, tranquillizza. È un primo tentativo.

Usare le conoscenze pregresse. Fidarsi di qualcuno. Seguire le regole che chi per noi ha stabilito possano andar bene in questa situazione. Non sarò io a raccontare cosa.

Ma tra l’ansia e la paura scorre un filo sottile. Imparare a vedere il virus come una stufa accesa. Non ci posi la mano sopra. La paura del dolore ti frena. Ma non ti agiti vicino ad una stufa. La paura è nobile. Ci aiuta ci salva ci fa lavare le mani prima di mangiare.

Che poi dovrebbe esser abitudine

E se le informazioni da sole non fanno effetto perché dentro di noi quella piccola percentuale suona tantissimo e fa rumore e moriremo tutti, resta il respiro.

Il caffè caldo al mattino. Con la sua sensazione lungo la gola. La luce del sole. Il cuore che batte. La vita che scorre.

Scorre diversa. I bambini sono a casa, e non siamo più abituati a far i genitori 24h. Dobbiamo andar a lavorare e siamo di fretta e abbiamo paura. Panico.

Ferma. Respira. Senti la contraddizione.

So che andrà tutto male. Ma non mi godo lo scorrere del tempo. Perché?

Perché dentro quelle informazioni scavano. Sedimentano. Lo so che andrà tutto come deve andare. Che posso usare quella sensazione nella pancia per tener il metro di distanza, rinunciare alla festa, e la mia vita tornerà a scorrere nelle abitudini normali.

Ma ho il tempo. Che mi dimentico di avere. Tempo per guardare i miei figli, per portar la spesa ai miei genitori, per chiedere a quell’amico lontano come stai?

Quindi si. Puoi avere paura. Ma solo se ti serve. No. Non puoi metterci dei pezzi tuoi in quello che non sai. Puoi fidarti. Respirare.

 

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Fiumi di parole e bambini capricciosi

Un attacco di capricci è un’esplosione emotiva straripante che avviene quando il vostro bambino sente di aver perso il controllo. È la dimostrazione pratica di ciò che vostro figlio prova in quel momento: caos, confusione e sconforto. Quasi sempre i capricci si verificano quando lui si trova con la persona che ama di più, cioè voi. Ma, dopo tutto, sapevate già che essere genitori è difficile! Penney Hames

 

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Neuroplasticità. Plastica. Riciclo.

Inevitabile attivare libere associazioni, il cervello è automatico, risparmiatore, produttore, inventore di idee nuove riciclando quelle vecchie. Noi lo siamo, cogito ergo sum o sum ergo cogito. Uova e Gallina. Brodo. Influenza, coccole. Cura. Affetto.

Tutto nasce dalle modalità di caregiving. Che è una parola così bella che non voglio tradurre. Tutte le nostre connessioni dipendono da come l’altro ci contiene. Dalle esperienza che ci fa fare. Dalla nascita fino a circa i primi due anni anni vita. Ma poi non finisce li, il nostro cervello è caratterizzato dalla neuroplasticità, necessita di integrazioni continue e costanti per mantenersi flessibile.

Il cervello è un organo complesso che si occupa di tante cose, ma riducendo un po’ la sua complessità per infilarlo in un fiume di parole su uno schermo bianco, posso raccontarvi che la prima grande frattura è tra emisfero destro e sinistro. Il primo, quello destro, è molto emotivo, capriccioso a volte mentre quello sinistro è logico razionale, freddo a tratti.

Coordinare tutto il corpo è impresa difficile, ma anche coordinare tutte le funzioni del cervello è altrettanto impegnativo. Nel bambino accadono entrambe le cose in modo quasi contemporaneo. Affina il corpo e mette insieme funzioni cerebrali che sta conoscendo piano piano. E nel far questo si scontra spesso con l’Adulto, essere mitologico che ha già più o meno integrato il suo modo di pensare, di essere, ed è un Io fatto e finito. Ma quell’essere mitologico si trova spiazzato di fronte ad una richiesta che appare un capriccio che appare provocazione da parte di quell’essere minuscolo alto due mele o poco più, fortunatamente rosaceo e non di un colore tendente all’azzurrino che ci spiazza e ci fa arrabbiare perché non comprende la maestosa logica che caratterizza l’essere mitologico.

Nella complessità individuale ci troviamo immersi anche in quella relazionale, con un effetto a volte devastante sulla comunicazione, soprattutto in quella con i bambini. Saper riconoscer quale emisfero sta usando il bambino per comunicare con noi, ci permette di sintonizzarci sullo stessa modalità, entrare in contatto, aprire nuovi canali e capire il significato profondo di quanto ci comunica. Molte parole per dire che dietro ad un capriccio o a un comportamento apparentemente provocatorio, si nasconde un mondo, e per entrarci la chiave è la sintonizzazione. E il più delle volte a parlare è l’emisfero destro del bambino mentre quello dell’adulto è quello sinistro. Logico. Freddo. Calcolatore.

Proviamo ad entrare in contatto con il nostro emisfero destro, sciogliamoci, usiamo i canali non verbali, apriamo quella porta che ci permette il toccar con mano metaforica quanto sta esperendo, diamo un nome alla sua emozione, facciamola nostra.

Si, ma in pratica, che devo fare? 

Fermare comportamenti pericolosi per sé e per gli altri, quello sempre, ma laddove non ci sia la pericolosità ma solo un imponente NO davanti ad un “lavati i denti” è trovare la chiave giusta. In quelle due lettere ci sono tantissime cose che noi tentiamo di smontare in maniera improduttiva con minacce di privazioni di cibo di sonno di playstation televisioni con minacce più o meno reali di denti che cadono e dentiere messe su già a 10 anni. Ma resta un NO. Non esiste la soluzione magica per tutti, ma in generale ci sono alcune strade che val la pena tentare percorrere. Da quella di far diventare il momento dei denti un gioco, una sfida, un ballo scatenato davanti allo specchio con uno spazzolino microfono che pulisce via e combatte i mostri che si insediano tra i canini, alla comprensione della sua brutta giornata perché ha litigato con l’amico e sfoga come riesce le sue frustrazioni, passando quindi alla fisicità, all’abbraccio, alla comprensione e denominazione dello stato emotivo che sta vivendo il bambino. E non ho usato la parola “amichetto” in modo voluto. Perché sminuirei la portata del suo dolore. E la comprensione del suo dolore, la sintonizzazione emisferica di cui sopra, è importante. Capire il dolore, non negarlo, accettato, condividerlo, abbracciarlo. Creare la calma nella quale si può spiegare che i denti se non si lavano si rovinano nel tempo. Ma magari lo facciamo insieme. Perché aumentiamo il tempo passato insieme in maniera piacevole. Cosi’ che avrà un bel ricordo da grande delle esperienze relazionali, le troverà gratificanti. Dopaminergiche.

Fare il genitore è difficile. Mal comune mezzo gaudio. Sorriso. Mia figlia che ride. Chiudo il cerchio e far il genitore è difficile ma è la cosa più bella che mi sia mai capitata. E ho il potere di renderla anche un’esperienza piena di vita. Felice.

Adesso basta. Se avete dubbi, sono qui, in qualsiasi recapito troviate nella mia home page. Se non mi trovate è perché dalla neuroplasticità all’oddio mi sono dimenticata di differenziare la plastica, è stato un attimo. Una sinapsi.

 

 

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Come sopravvivere all’amore

Ognuno porta in fondo a sé stesso come un piccolo cimitero delle persone che ha amato. Romain Rolland

Cosa rimane quando una storia finisce?

Dove vanno a finire tutte le parole, le sensazioni?

Che cosa resta di me senza te?

Amerò ancora? No. Non voglio più soffrire per amore.

Come se tutto il Male finisse dentro al cuore. Quell’organo perfetto che pompa sangue e sentimenti, come se dalla metafora diventasse un centro nevralgico, un dolore acuto e insopportabile che tocca anche il respiro. Lo priva di automatismo e lo rende difficile. Difficile come sopravvivere. Ma non é lì che sta l’amore. Come quasi qualsiasi cosa che ci riguarda, ha un suo sostrato che sta un po’ più in su del cuore. Lontano da lui e più vicino agli occhi. Sta in quel chilo e mezzo dentro la scatola cranica. Dove le cellule comunicano in modo elettrico tra di loro, formano onde e complicate reti dove incastrano il ricordo e lo manipolano e lo rendono perfetto e dove nasce la sofferenza.

Si guarisce. Dalle pene d’amore si può guarire. A volte è fisiologico, altre volte serve un pace maker, ma se ne esce diversi ma non per forza peggiori.

Perdere un amore è un lutto con un cadavere ancora in vita. Un ossimoro difficile da gestire.

Nasce allora questo spazio dove condividere e raccontare che cosa sta accadendo tra cuore e cervello. Scrivimi nella posta sulla pagina Facebook di Manuella Crini o nei contatti che trovi nella homepage.

Racconta la tua storia. Il tuo dolore. La tua cura. In modo anonimo diventerà un pezzettino di storia da tenere qui.

Ti aspetto

Manuella

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Che cosa me ne faccio ora di tutta questa adrenalina?

Questa è adrenalina, Lindsey, la sentirai. Mission impossible III

È una parola che ha un bel suono, neurormone. Un qualcosa che nella sua infinita piccolezza regala sensazioni di paura mescolate ad una sensazione di euforia. Nelle situazioni di pericolo, quelle classiche, quelle per cui devo combattere o fuggire, questa catecolamina, o meglio, un esercito di catecolamine, fanno si che il corpo sia pronto. Questo si traduce in una maggiore irrorazione dei vasi sanguigni, dilata i bronchi, fa aumentare il battito cardiaco, rende ogni muscolo pronto all’azione. Mette in disparte tutte quelle funzioni che non sono necessarie nel processo di lotta o fuga. Come il sistema della riproduzione. Beh vi voglio vedere nel tentativo di copulare mentre siete in pericolo. Ma non sempre siamo in pericolo di vita. L’esercito parte anche in situazioni che non sono oggettivamente pericolose, ma sono mentalmente fonte di pericolo. Cioè la nostra personalissima valutazione dell’evento rende un qualcosa di non pericoloso, pauroso. Come un esame. Il cui risultato indirizza la nostra vita da una parte o dall’altra. E l’esercito di rende capaci di affrontate le sfide. Portano energia ovunque con un’azione mirata.

Ma poi tutto finisce. Il pericolo vero o potenziale o vissuto come tale, smette di sussistere. E nessun soldato si ritira nelle proprie stanze senza festeggiare. Così resta quella sensazione che si percepisce in ogni parte del corpo. Possono anche esserci tremori, sensazioni di defaticamento. E noi possiamo sederci e osservare il corpo che tende all’omeostasi assaporando ogni cambiamento che avviene dalla punta dei piedi fino a quella delle mani passando attraverso ogni cellula.

L’adrenalina è associata alla produzione di dopamina, che completa il quadro delle sensazioni di benessere accelerato che sentiamo. Ma non a tutti basta quella sensazione. L’effetto che provoca può creare una dipendenza per cui si continua a ricercare quella sensazione. Mettendo in atto comportamenti pericolosi o illeciti. Fino a mettere in pericolo la propria vita a volte.

Non è sempre immediato capire quando è presente una dipendenza da adrenalina. È una situazione caratterizzata dalla ricerca attraverso sport estremi o situazioni al limite. In cui le relazioni sociali sono le prime a soffrire. Una situazione che andrebbe in qualche modo sviscerata, per comprendere da dove nasce il bisogno.

E abbiamo aggiunto un altro importante organo al nostro corpo, in grado di completare come un puzzle ciò che siamo. Il surrene. Quel piccolo organo da cui la nostra epinefeina parte per tutte le battaglie. Il momento più bello per me, è la sensazione di ritorno a casa. La mia omeoatasi.

La dott.ssa Manuella Crini si occupa di consulenze psicologiche.

Difficoltà psichiche, Senza categoria

Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto un’isterica (A Merini) di isterie di vibratori e di poesie di resistenza

Ad esempio Charcot dimostrò che i fenomeni isterici sono qualcosa di autentico e conforme a uno scopo, che l’isteria è molto frequente negli uomini, che paralisi e contratture isteriche possono essere provocate dalla suggestione ipnotica e che questi prodotti artificiali hanno, fin nei minimi dettagli, le stesse caratteristiche degli attacchi isterici spontanei che spesso vengono provocati da un trauma.                                   Sigmund Freud

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L’utero è mio e lo gestisco io. Quella roba che quando ho visto alla mostra dei corpi, così piccolo e indifeso, una piccola tasca in grado di contenere, accogliere e far crescere una vita, mi ha stupito nella sua fragilità e minutezza. Capace di adattarsi ai cambiamenti, di deformarsi fino a prendere una forma che nulla ha a che vedere con l’originale, capace così tanto di rappresentare l’essenza dell’essere umano. Isteria parte da li, da Ystera, utero. Una malattia dai toni prettamente femminili. Una forma di psicopatologia. Le radici sono antiche, egiziane, e si riteneva che uno spostamento dell’utero potesse causare alterazioni psichiche nella donna e la soluzione era cercare di riportare questo organo dotato di potere maligno e benevolo al posto giusto.Oppure starnutire. No, non ridere, la medicina ha una storia complessa e affascinante e Ippocrate usava una sedia rotante per riportare gli umori al posto giusto e l’utero si poteva sistemare anche starnutendo. Le isteriche sono state poi streghe, esseri posseduti dal maligno, insensibili al dolore durante le crisi. E si passò all’uso degli ovuli, quando il rogo non funzionava. La scienza a tentoni cercò di dare una qualche giustificazione che tenesse un po’ di più e allora si ipotizzò che in qualche modo l’utero che si ammalava, diventava freddo e intaccava altri organi interni causando gli spasmi tipici dell’isteria. La menopausa era considerata causa di psicosi, come se tutto girasse intorno, nella donna, a quella piccola tasca marsupiale che permette la vita. L’isteria è anche stata trattata con massaggi. Quelli con happy ending, che guai a chiamare orgasmo però, erano solo parossismi isterici, una manifestazione particolare legata alla patologia. Si è passati alla cura con il vibratore, che nasce come strumento medico e poi, fortuna nostra, è diventato strumento di piacere. Ma anche attraverso pratiche brutali che prevedevano la clitoridectomia e l’isterectomia. La strada per arrivare ad affermare che l’isteria non ha a che vedere con l’utero, ma è legata ad un altro organo, sempre meravigliosamente plastico, ma che sta un po’ più in su, è stata lunga, e si arriva a Parigi, da Charcot, che descrisse in modo accurato gli attacchi isterici, dalle pose plastiche alla fase allucinatoria. Siamo poi passati attraverso Anna O., la paziente di Freud, di cui magari vi racconterò più avanti, riportando tutto ad una sfera affettiva traumatizzata.

Nell’immaginario popolare la donna isterica non assume pose plastiche, nessun arco isterico. Diventa la donna lunatica, quella che ha crisi improvvise di rabbia, di panico, che non riesce a contenere tutto il tumulto emotivo che ha dentro. Da psicopatologia a parola offensiva per minimizzare a volte un bisogno, la strada è stata apparentemente breve, ma degli antichi egizi ad oggi è stata lunga.

Che cosa resta dell’isteria oggi? Si parla di disturbi di conversioni o di personalità istrionica e analizzando la radice del termine, si ritorna all’utero. E della parola isteria resta solo la parte sfregiativa, quella che taglia la pelle dell’emozione, che ti dice che il tuo urlare o il tuo piangere o la tua paura, non hanno dignità. A volte è un bisogno urlato, perché non sia aveva lo strumento giusto per parlar a bassa voce, è uno sfogo troppo a lungo taciuto. E’un dolore che va lenito, un dolore che va ascoltato e a cui dar forma. Ma le sue parole vanno più dirette a quella parte del cervello che è capace di emozionarsi ancora. E ve le metto qui.

 

Sai cosa ti dico?

Ch’io la amo questa mia isteria.

E sai perché la amo?

Perché è mia.

E perché dopo tanti anni ti ho rivista

– amica mia –

tu con due bambini in braccio

io con un figlio già cresciuto

a domandarci se sia vivo

tutto quel che abbiam taciuto,

mentre tu scegliesti di restare

con un uomo sempre assente

ed io optai per il partire

– che intanto non cambiava niente –

Per essere poi sole tutte e due

ancora a domandarci se sia colpa

di quella parte di incoscienza

che ci ha viste scanzonate

per il mondo

come sciocche ragazzine.

Ancora a domandarci

se non dovremmo pianger mai

non essere invadenti

non alzare mai la voce

nascondere il minuto di paura

condannare

quell’espressione di isteria

che eppure sai cosa ti dico

amica mia?

Io la amo, perché è mia!

Perché è il frutto

di quello che ho vissuto

figlia legittima di ciascuna frustrazione

di ogni atto di coraggio

di tutta quella tentata umiliazione

a cui -alla fine-

non abbiamo mai ceduto

come mai lo abbiamo fatto

con il misero ricatto

che ci vorrebbe con un culo

piccolo e perfetto,

che ci vorrebbe a metter ordine

la sera

nella vita di uomini

sempre troppo stanchi per capire

quanto sia caro il prezzo

del dover essere perfette

e donne e madri e mogli

e amanti e figlie

e a letto anche un po’ puttane

senza mostrare mai stanchezza

né paura

come se esser forti

volesse poter dire

aver messo al cuore la sicura

o come se esser grandi

volesse poter dire

abbandonare la bambine

che siamo state allora.

E invece sai cosa ti dico, amica mia?

Sfogati, urla, spacca tutto

gridalo in faccia a questo mondo

che hai paura

diglielo che non te ne fotte niente

della costosa perfezione

che non taci mai a comando

che non rotolerai nel fango

di quella schiavitù silente

che ti vuole sempre bella e sorridente

per cui – mi raccomando –

sii carina spiritosa ed accogliente

comprensiva, empatica e accudente

ma assolutamente mai invadente!

Mai stanca, mai sciocca,

mai bambina,

– E smettila con le richieste di attenzione!

Non vedi che oggi non ne ha voglia? –

– Ma come sei fragile! Dio!

Cosa ti piglia? –

Avresti forse voglia di gridare?

Di pestare i piedi

di impuntarti e non parlare?

Di mandare a fare in culo

tutto il mondo?

Di chiedere un abbraccio?

Di pregare una carezza?

Di supplicare che sia legittimo

questo minuto di incertezza?

Sai cosa ti dico?

Fallo adesso – amica mia

prima che sia tardi e vada via

questo splendido momento di isteria.

#poesiediresistenzafemminile

 

Si ringrazia l’artista e Amica Amanta Strata, per aver dato un senso nuovo ad una parola che è stata stravolta nel suo significato originario e aver ridato dignità ai bisogni, quelli che se non sono compresi, restano intrappolati e volte urlati. Ridiamo dignità alle emozioni, che sono quelle che ci salvano. Sempre. Grazie.