Pensieri su giornate speciali

Pensati libera, ma non distruggere il palco

“I ragazzi oggi sono troppo indecisi” Chiara Ferragni

Mentre scrivo il suo occhio mi guarda dal righello di mia figlia. Una riga di occhietti apparentemente inutili che per la mia bambina rappresentano un personaggio che letteralmente adora. E sono molto lieta che le piaccia un viso gentile e senza vergogna. Ma tralasciando i miei personalissimi giudizi sulla persona, volo su quel pensati libera che ha scatenato meme su meme verso l’infinito ed oltre.

Nel mentre un diciannovenne ridendo “distrugge un palco”. Perché pensarsi liberi ed essere liberi sono due cose diverse. Completamente.

Nessuno è libero. Nemmeno Blanco. Nemmeno Grignani. Ma questo già c’è lo diceva Marco Masini cantando vaffanculo.

Per essere bisogna pensarsi. Cogito. Anche se il pensiero è emerso nella storia della vita dopo l’esistenza, è riuscito in modo potente a ribaltare le carte in tavola, ponendosi alla base del castello. Di carta appunto.

Partiamo dal principio, dal brodo primordiale, quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole, ma poi la vita è un brivido che vola via, ed essere unicellulari, diciamocela tutta, faceva schifo. Come avere le branchie. Meglio essere uomini che inquinano le acque che cercano di ripulire per mangiare i pesci e fare il bagno e tintarella di luna e altre canzoni che trovano sempre uno spazio per esistere.

Complicandoci la vita, anche con grosse comunità di persone organizzate, è sembrato carino per l’evoluzione donare i lobi frontali che tra le altre cose permettono il pensiero, la mente, la metarappresentazione di noi stessi. Sum. Ergo cogito.

Ma come i poli dell’asse terrestre ogni tanto cambiamo polarità, anche questa dicotomia si è invertita e l’essenza del pensiero è quella che pra permette l’essenza dell’esistenza.

Pensati libera. Crea quello spazio mentale in cui puoi essere libera. La libertà non esiste in realtà. Siamo comunque vincolati da così tante cose che le parole in questo articolo diventerebbero troppe e ancora più confuse. Ma il pensiero crea nella mente quello spazio di libertà. Il pensiero della libertà è lo scaffolfing della tua libertà. Senza quel prezioso ponteggio ogni azione che tende alla libertà diventa inutile. Perché non ancorato al progetto di sè stessi.

È un pensiero di una profondità così abissale che tira dentro in modo così potente che è diventato virale senza rendersene conto. Ma è un sunto splendido.

Sentiti libera ma non distruggere il palco. Perché se lo fai dai lo spazio a tutti di dire che le nuove leghe sono maleducate e cafone. Perché la libertà ha un piccolo confine invisibile. La mia libertà finisce dove inizia quella di un altro. In uno splendido gioco di bolle di sapone che devono galleggiare delicate per non bucarsi. Doveva far molto più rumore una scritta nero su bianco. Non rosa su Blanco.

Pensarsi libere significa non appartenere a nessuno. Essere liberi vuol dire non ledere nessuno mentre ci esprimiamo. Blanco si è espresso. In un vuoto di rumore nelle sue orecchie ha vissuto il suo video giocando tra le rose e l’indignazione di chi cerca cause scavando anche in una sua potenziale infanzia vacua di ceffoni al punto giusto. Se le rose non soffrono, allora Blanco si è solo espresso liberamente. In un gioco di petali che indubbiamente non lo renderà libero e non gli permetterà di pensarsi tale. E io mi sento libera di non giudicare un quasi ventenne massacrato poi delle sue stesse rose.

Pensiamoci libere. Ma pensiamo che anche gli altri lo sono. A volte poco, a volte troppo.

Manuella Crini, da psicologa capisce della musica che serve a far esplodere o implodere le emozioni. Della moda non capisce molto se non che sia un manifesto di se stessi. Di Sanremo sa che è uno spazio che permette di parlare di tutto.

Senza categoria

A Natale puoi. Almeno a Natale non dovere sempre.

  • Cosa chiedi a Babbo Natale?
  • L’estate

Qualsiasi forma abbia avuto in origine in Natale, lo immagino umile e intorno al fuoco, con poco cibo e nessun albero decorativo pieno di carta patinata. Abiti color mattone, grembiuli sporchi e facce stanche. Poi la mia mente vola agli anni ’50, alle famiglie delle pubblicità, con la piega sempre a posto, la cucina linda e la tavola imbandita. Mancando i cellulari non era così semplice augurare buon Natale agli amanti.

Ora lo immagino al supermercato, a cercare il piatto che esca dalla tradizione rimanendoci dentro, utopico come il regalo perfetto. A cercare ii regali anche su Vinted o Tik Tok, in ansia per il look perfetto delle feste. Poi immagino il Natale in solitudine, che magari vuoi anche ma che fa talmente strano volerlo che ci si deve sentire soli perché senza un tavolo cui sedersi. Tavolo con rigorosamente 40 parenti che non vedi da almeno un anno, pronti a far domande indiscrete che nemmeno il prete osa fare. Immagino il Natale silenzioso delle famiglie che vivono difficoltà, in cui nel piatto si spolverai tiramisù con la vergogna di non avercela fatta. Povero Gesù, che pandemonio per un compleanno per lui senza regali.

Ha tante facce il Natale. E un dono potente. Esplosivo, far sentire in maniera amplificata tutte le sensazioni, tutte le mancanze, tutto quello che si voleva essere e non si è. Il giorno del giudizio. Il nostro su noi stessi. Esistono molte guide su come sopravvivere al Natale, ed è buffo pensare di dover sopravvivere ad una festa, non ci sono guide su come sopravvivere a Ferragosto. Quindi forse il trucco è non cercare una sopravvivenza, perché non è un pericolo. E finché lo viviamo come tale è inevitabile che nel cervello si attivi quel campanello che urla “allarme” e fa salire l’inevitabile ansia.

Prova a fare quello che ti senti, non quello che sentono gli altri, che tanto fanno anche loro quello che sentono altri creando circuiti incredibili di aspettative e sensi di colpa senza delitti compiuti. Altrimenti si evira il Natale di quel senso di tavola umile e volti stanchi che cercano il riposo in un giorno di festa tra altri volti stanchi. Prova a fare solo i regali che senti, prova a cercare quelle sensazioni di quando eri bambino, della magia del Natale, prova a chiederti cosa vuoi, cosa vuoi tu davvero e non cosa si aspettano gli altri che abitano nella tua testa. Prenditi cura di te, non dell’immagine che vuoi che sia stampata nella mente altrui. Prova a parlare con quelle emozioni che senti, che ci sono sempre, ma sono meno propense a gridare. Prova a dargli un senso, a capirle, perché le emozioni sono quanto di più razionale abbiamo. Prova a surfare su quelle onde negative, senza che abbiano il sopravvento.

Di consigli pratici è pieno il web, il vicino di casa, il panettiere. Ma cosa vuoi davvero, quello lo sai solo tu. E una volta che lo focalizzi, cerca di raggiungerlo. Vuoi passare il pranzo a mangiare? Fallo. Vuoi andare a correre? Fallo. Vuoi che sia un giorno normale? Trasformalo in un giorno normale.

Non dobbiamo essere più buoni solo perché una frase del panettone (o pandoro) ci chiede. Possiamo essere noi stessi anche a Natale.

Ance a te e famiglia

Manuella Crini

Senza categoria

Di fango e solidarietà

Pratica gesti casuali di gentilezza e atti insensati di bellezza. A. Herbert

Solidarietà. Un sentimento sociale. Perché le emozioni di base sono favolose ma sono altamente individuali, e poi riescono a combinarsi nella magia delle connessioni sinaptiche e ad un certo punto prendono vita le emozioni complesse che presuppongono il continuo confronto con il mondo relazionale.

L’amore si dimostra con le azioni, e nella solidarietà si esprime una reciproca considerazione di condivisione di interessi.

La spinta alla solidarietà è il senso di appartenenza. E l’appartenenza è un insieme di cerchi concentrici che si stringe intorno a quella che è la famiglia. Ma nei cerchi più ampi la famiglia si allarga. Si condividono idee interessi e obiettivi.

Esser solidali fa bene. Praticate gentilezza fa bene. Alla mente e al corpo. Modifica la pressione sanguigna, abbassa il cortisolo e modifica positivamente le endorfine.

Guardare la solidarietà cambia la prospettiva del mondo. Amplifica il senso di appartenenza a quella famiglia. Fa bene alla coppia e a tutti i membri del gruppo.

Che il corpo risponda su una sensazione mentale, lo trovo semplicemente meraviglioso. Le endorfine aiutano a superare la drammaticità di quanto sta accadendo intorno e il cuore si calma. Lo stress diminuisce. Perché un altro essere della mia specie, mi fa sentire in famiglia.

4-10-2021 tra fango e cose rotte ho visto cose belle – QUADA

#pensieriallacaffeina

auto- di se stima- aes misura di un valore

L’acqua cade dall’alto al basso, è la forza di gravità. Anche le emozioni forse agiscono secondo la stessa legge. T. Kawaguchi

Chi è il metro di me stesso?

William James ha definito per primo un concetto così complesso come il metro di sé stesso come un rapporto. Tra il Sé percepito e il Sé ideale. Più ci avviciniamo all’uno, più la nostra valutazione schizza alle stelle. Un PIL pazzesco che ci riempie di dopamina. Quell’uno sembra ogni tanto così lontano che il bicchiere diventa un quarto pieno.

Le variabili in gioco sono due. Un sé ideale, che costruiamo nel tempo, in base alla nostra storia di vita, alle aspettative che lentamente si sono insinuate nelle nostre sinapsi e un sé percepito, che in quanto tale, non per forza corrisponde al dato oggettivo, e qui tornano in ballo costantemente i legami affettivi precoci, quanto ci hanno valorizzato, quanto ci hanno aiutato a percepire i nostri confini. Ma non vuol dire che se non ci hanno costantemente detto che siamo bravi, buoni e belli allora abbiamo un pessimo senso dei nostri confini. E non vuol nemmeno dire che i nostri genitori siano causa di tutti i mali. Ci sono tante figure importanti che noi incontriamo nel nostro cammino e a volte è il semplice sguardo sconosciuto a farci perdere forza nelle nostre stesse convinzioni. Altre è un partner devastante, ma non è questo lo spazio da dedicare a narcisisti e co. che a volte si palesano sulla strada.

Autostima. Buffo pensare che se ce l’hai, va tutto bene e se manca allora è un disastro. In realtà abbiamo tutti quella costante valutazione di noi stessi. A volte è positiva, altre volte vacilla.

Quindi chi è il metro? Noi. E solo noi. Ma noi siamo animali sociali, inutile negare la profonda influenza degli altri nella costruzione del nostro personalissimo metro. Tutto gira intorno a quello che abbiamo definito essere il Sé ideale. Quello cui vorremo inesorabilmente assomigliare. Può essere un Sé raggiungibile, o può essere così distante da quello che siamo o da come ci percepiamo che viviamo deludendoci ogni giorno. Il Sé ideale contiene non solo quello cui aspiriamo ma si porta dietro anche ciò che non vorremmo mai essere e giudizi che vanno in tal senso, usciti dalla testa e dalla bocca da chi per noi è importante, può essere profondamente dilaniante.

Ma torniamo a noi, che il caffè è quasi freddo. La domanda era: perché in alcune situazioni mi sento profondamente fuori luogo? Perché sento che il mio modo di essere non è quello che mi e si aspettano che sia. Come se fossi vestito da rugbista ad una serata di Gala. Che poi, può anche capitare, ho interpretato male l’invito, ma il più delle volte è il non sentirsi all’altezza della situazione, con una valutazione di sé molto negativa, rafforzata spesso da memorie e ricordi in cui siamo stati denigrati in modo diretto, o peggio, in maniera subdola, senza possibilità di ribattere.

Come fare?

Come al solito stiamo ancora lavorando alla pillola magica, ma nel frattempo, io partirei da una visione diversa del proprio Sè percepito, provando a guardare quei confini che spesso sono disegnati dai nostri valori, quindi cercherei di capire quali sono, se li rispecchio, se poi davvero li ritrovo nel mio Sé ideale. Aumenterei le mie skills, e partirei sempre da quella roba che tutti schifano, le emozioni. Mi ascolterei. Ascolterei il mio corpo, il tempio della mia mente. Che spesso mi parla ma io testardamente, ignoro.

Il caffè è freddo, devo tornare nel mio tempo.

La dottoressa Manuella Crini beve spesso caffè. Pare abbiano un buon effetto anche in termini preventivi di alcune malattie neurovegetative. Se non si esagera. Come tutto.

#pensieriallacaffeina, Pensieri su giornate speciali, Senza categoria

Pasah. #pensieriallacaffeina

Passare oltre. Ri-nascere. Sacrificare.

Quanti significati racchiude la Pasqua. Condotti ad un uovo di cioccolato che viene rotto in trepida attesa da un bambino, o da occhi di bambino.

Attesa.

Negli ultimi due anni è diventata anche questo. Attesa che il mondo riparta. Come se si fosse fermato. Imperterrito ha continuato ad avvolgersi su se stesso. A girare intorno al sole. A far germogliare semi. A guardare nascite e morti.

È tornata ad essere sacrificio. Enorme. Per due lunghe attese che qualcosa cambiasse. E sta cambiando. Non so ancora in che direzione.

Perché non si è fermato. Non ci siamo fermati. Siamo cambiati. Nel bene. Nel male. Come se fossero termini assoluti che racchiudono incredibili dogmi. Ma sono contenitori di contenuti che possiamo solo riempire noi.

Qualsiasi cosa vogliamo essere, possiamo continuare a volerlo. Possiamo riempire il bene di tante cose. Buone e belle per noi.

Passare oltre

Ripartire

Rompere l’uovo. Tirar fuori la vita

Auguri

Manuella

#pensieriallacaffeina, Difficoltà psichiche

Il covid non mi toglierà Parigi

Anche se il timore avrà sempre più argomenti, scegli la speranza – Lucio Anneo Seneca

Il computer è collegato al cavo della corrente da questa mattina alle 5. Ho fatto il giro a cercare per casa i tablet, le cuffie, mettere in carica la scuola per domani. E’ una pandemia, come si fa ad essere sereni in una pandemia? Ricordo che a casa mia, figlia di un falegname, restavano sempre cose da aggiustare, perché non c’è tempo per far i lavori a casa propria, quando passi la giornata ad aggiustare i pezzi degli altri. Ed è così che mi chiedo in che punto mi sono crepata. Un po’ ovunque temo. Manca quella spinta vitale che mi permetteva di organizzare una vacanza, ma anche solo una pizza nel week-end. Manca l’energia per pensare come sia fatto il mondo oltre i 30km da casa. Mi sono anche chiesta se la Tour Eiffel stia ancora al suo posto, se alla sera si accendono le luci e chissà se si sente ancora il vento addosso da Trocadero, e le dita si fermano sulla tastiera, le rughe compaiono sul volto, e lo sento. Sento il vento freddo e gelido di febbraio, che mi fa pungere le orecchie ma la meraviglia di quella costruzione che improbabile ha resistito alle esposizioni e sta li, ad aspettare che io torni ad ammirarla di nuovo, rende magico tutto.

Sono troppo dentro la pandemia per restarne emotivamente spostata, la sto vivendo, la sto sentendo, oscillo tra la pena per i morti e quella per i vivi, così oggi non parlerò di articoli, di scienza, di danni da restrizioni e di futuri incerti.

Parlerò di una lunga giornata. Iniziata con più cavi che fili che devo snodare quando addobbo un albero di Natale, iniziata con un trucco bello, un abito felice, e piombata in due classi a distanza che mi fanno risuonare in testa quanto non debba cedere al multitasking che fa male, che stanca, che non permette di fare tutte le cose al cento per cento. Come meritano. Ma il caos ha preso il sopravvento nel modo migliore. Perché io amo il caos. Diventa una musica in 8D che ti fa viaggiare da un emisfero all’altro del tuo cervello (perché non hai una motivazione valida per andare lontano), e ho sorriso. E ho guardato le mie bambine, stanche ma forti, capaci di trovare le più piacevoli soluzioni ai più grandi disagi. Si, il lavoro smart stanca. Non è smart. E’ capovolto. E non diventerà abitudine. Non per me. La scuola a distanza, non è scuola e sono arrabbiata, si tanto, perché le soluzioni dovevano essere altre, ma. I ma appesi. Quelli stesi. Come i panni che stasera ho tolto dalla lavatrice e in mezzo a tante maglie ha fatto capolino quella dell’atletica che mia figlia non potrà fare per chissà quanto e si aprono cassetti e cassettoni sulle ricerche sull’aumento dell’obesità, sulla mancanza di stimoli sociali in un periodo così delicato dello sviluppo e non voglio lasciarmi sopraffare. Devo galleggiare. Non cerco il lato positivo, le situazioni non sono medaglie. Non c’è il bianco o il nero. C’è il rosso. C’è la rabbia. Allora la spingo via, guardo il pc. Penso che sia stata una giornata davvero lunga. Ho fatto così tante cose che nemmeno le ricordo più. Credo che aggiungerò al cv che sono una mamma eroe. Di quelle che ha cavalcato la pandemia, le scelte giuste, quelle sbagliate. Di quelle che meritano un abito alla wonder woman. Eh si. Questa sera mi permetto anche di pensare che avere un corpo calloso così grande mi permette (ci permette, noi, donne) di tenere incollate così tante parti mentre lavoriamo, ritorniamo a scuola, cuciniamo, laviamo renda più facile per noi (donne)arrivare alla sera e sorridere.

Non ce la farò mai, e invece ce la stai facendo. Ancora 5 minuti, ancora 5. Non cerco il lato positivo, è una situazione rotonda. Ma cerco i momenti in cui oggi ho sorriso. E sono stati così tanti che pagano tutte le fatiche a sbrogliare i fili.

Non me ne volete. Ma oggi avevo bisogno di aggiustare qualcosa anche io.

Manuella

#pensieriallacaffeina

Dove si specchiava Mowgli #pensieriallacaffeina

I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia  VS Ramachandran

monkey-3512996_1920

Le scimmie macaco sanno fare una cosa semplice. O meglio, una classe particolare dei loro neuroni la fa. I loro neuroni si attivano non solo quando compiono un’azione, ma anche quando vedono qualcuno che la sta facendo. Questo permette una roba altrettanto semplice. L’apprendimento. Non per esperienza diretta, ma per imitazione. Questi neuroni sono così tanto vanitosi da funzionare da specchio. E la cosa bellissima è che li abbiamo anche noi. Questo ci permette di capire le intenzioni che stanno dietro un movimento. Comprendere se un braccio alzato sia un saluto, un tentativo vano di fermare un taxi in un giorno di pioggia o un gesto minaccioso.

E fino qui sembra tutto molto bello. E penso che lo sia davvero, ma la cosa più stupefacente è la necessità di coinvolgere il corpo per comprendere qualcosa di simbolico. I neuroni specchio sono stati individuati per lo più nella corteccia motoria, quella parte del cervello che sta più o meno nella zona in cui da bambini vi facevano lo scherzo dell’uovo rotto in testa (e se non ve lo hanno mai fatto, dovreste trovare qualcuno che ve lo faccia perché è una di quelle tradizioni che vale la pena di tramandare), e si attiva quando progettiamo e mettiamo in atto un movimento. Il cervello è questa grande centralina in grado di comandare il corpo e noi nemmeno sappiamo quanto lui comandi noi o noi comandiamo lui. E forse è questo uno dei motivi per cui mi affascina così tanto. Ma non divaghiamo troppo.

Torniamo agli specchi e al corpo.

Siamo abituati a pensare al corpo come quella roba fatta di gambe, braccia, volto. Ma per me, cresciuta a cibo rigorosamente vegetariano ed esplorando il corpo umano, la parola corpo evoca una lente di ingrandimento che arriva fino nei meandri della spirale del DNA. E li accadono le magie. Le magie sono date dall’enorme potere del simbolo sulla spirale. Le esperienze di vita, le relazioni, le modalità con cui ci si pongono gli altri significativi, entrano prepotentemente, in alcune fasi critiche dello sviluppo, nella spirale e sono capaci di modificare l’espressione dei geni. Dilla più semplice Manuella. Le esperienze di vita sono in grado di cambiarci davvero. A livello genetico. E il corpo è il teatro di tutto questo.

E il corpo ritorna quando dobbiamo tradurre il mondo. Dobbiamo sentirlo sulla pelle un gesto per poterlo significare. Dobbiamo viverlo in prima persona. Per questo si attivano quei neuroni, come se il gesto in questione fosse fatto da noi. A quel punto, per un’esperienza che diventa diretta, perché la stiamo facendo in qualche modo anche noi, siamo capaci di dare un significato. Ma quel significato è nostro. E dipende da quello che abbiamo vissuto in precedenza, da come le esperienze hanno modellato il nostro corpo, dalle etichette emotive che abbiamo messo sui vissuti passati.

Ma alla fine sto solo bevendo un caffè è divagando con i pensieri. Ricordando quanto forti siano le interconnesioni tra il pensiero e la materia. E quanto fondamentale sia il contatto con altre persone nelle quali specchiarci. E a tutti i bambini Mowgli della giungla che si sono specchiati in altre forme di vita.

 

Manuella Crini

 

Senza categoria

L’importanza di vomitare

Il corpo si libera di quello che potrebbe nella sua tossicità ucciderlo. È un ruolo importante è giocato dal midollo allungato. Il sistema nervoso, ha sempre un ruolo. Quasi. Ma a me piace pensare che ne abbia sempre uno.

Prima di vomitare, si sta male. Dopo, si inizia a star meglio. Vomitare pensieri è cosa diversa. Tirar fuori tutto quello che dentro può diventar tossico o pericoloso, può in apparenza far sembrar pericoloso anche quello che sta dentro, una volta tirato fuori. E allora teniamo tutto dentro, temendo che una volta tirati fuori i nostri mostri, possano aver vita propria e distruggere il nostro mondo intorno. Ma fuori da noi, i mostri non sopravvivono. Riusciamo a vederli. A capire che forma abbiano. Come tutti i mostri, fuori dal letto, non sono così spaventosi come quando sono nascosti sotto.

Non sempre è facile vomitare i pensieri. Non sempre il luogo e il tempo in cui ci si trova sono spazi adatti. Ma dentro crescono. Si nutrono e si ingarbugliano. Creano crepe. Arrivano fino alla punta delle dita.

Fanno battere il cuore e accorciano il fiato.

Un punto che sembra morto. Come se il punto potesse morire. Ma dopo il punto c’è uno spazio bianco. In cui si può iniziare a scrivere al Mostro che non si riesce a vomitare. Guardarlo un po’ in faccia. Vomitare parole dopo il punto. Che non è morto. È solo una pausa un respiro.

Forse dopo aver vomitato servirà stare fermi un po’. Ascoltare di nuovo il corpo. Dopo aver vomitato i pensieri forse servirà star fermi un po’. Ascoltare di nuovo la mente. Con tutto il tumulto di emozioni che tira fuori. Ascoltarle. Viverle. Lasciarle andare.

Auguri Richy.

#pensieriallacaffeina, Difficoltà psichiche

Di asintomatici con il caffè #pensieriallacaffeina

Quando l’epidemia finirà non è da escludere che ci sia chi no vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia […] chi deciderà di credere in Dio e chi smetterà di credere in lui. David Grossman

hitcher-1536748_1920

La memoria si appanna se tento di ricostruire senza appigli questi ultimi mesi. Ricordo vagamente il telegiornale che parla della Cina e mi sembra di conoscere quello che raccontava. Di un virus con potenziali effetti sul sistema respiratorio. Ma sono abbastanza sicura che in quel periodo non sapessi esattamente cosa fosse, cosa volesse dire essere positivi, quanto durasse l’incubazione e nemmeno che esistessero dei positivi asintomatici. Ma il mio cervello non può ricordare le informazioni in modo puntuale sulla linea temporale. Mette insieme quello che ha appreso nei giorni a venire e andando a ritroso, fatico a ricostruire i momenti in cui ho conosciuto. Un accomodamento di informazioni, a volte discordanti tra di loro. Una tempesta in atto da mesi con il vano tentativo di ricostruire un percorso  logico e vedere se da qualche parte c’è un luogo sicuro in cui rifugiarsi.

Tempesta. Citochine. Processo infiammatorio. Terapia intensiva. Ghostbuster intorno al paziente. Remdesivir. Tamponi. Mascherina. FFp2, Ffp3. Soluzioni idroalcoliche. Numero dei morti giornalieri in Italia. Tutta roba nuova. Alcune informazioni pressoché sconosciute sono entrate a far parte del mio vocabolario. La normalità è stata stravolta. Con adattamenti rapidi. Il lavoro agile. Le videochiamate. Gli aperitivi a distanza. Gli arcobaleni e le persone felici in terrazza. Corri che il bar chiude alle 18. Il bar è chiuso. Stampa l’autocertificazione. Il distanziamento trasformato in isolamento sociale.

E’ una grossa immagine fatta di piccoli e grandi elementi, alcuni statici altri dinamici, che rappresentano un quadro di cambiamenti cui siamo sottoposti da mesi. Alcuni lo hanno definito un enorme esperimento sociale del tutto inconsapevole. Una situazione ecologica da cui apprenderemo tantissime modalità di funzionamento e capacità di resilienza e capacità di analizzare la propria vita da una prospettiva quasi ascetica.

Io penso che il virus abbia colpito tutti. Direttamente o indirettamente. Ognuno ha pagato le sue personali conseguenze. E ci saranno positivi e negativi. C’è chi si ammalerà da questa situazione, chi non verrà toccato e alcuni asintomatici positivi. E non ci sono reagenti per capire.

I positivi con sintomi, avranno i sintomi. Che possono essere crisi ansiose, depressioni, anche suicidi. Nel silenzio del telegiornale su quanto accade nel mondo, troppo concentrati a far la conta dei morti, accadono anche loro, ma non ci sono autopsie che tengano, o meglio, ci sarebbe quella psicologica, ma tutto il focus delle risorse è solo su un virus. Si vabbe ma stavano già male prima dai. Può essere. Può essere che ci fosse un disagio che la solitudine in cui si è ridotta la loro vita abbia fatto da detonatore. Può essere che l’incertezza economica lo abbia fatto. Può essere che convivere forzatamente in un nucleo inadeguato abbia tirato fuori emozioni che non potevano essere gestite tra quattro mura. Ma è come dire che si muore di Covid perché ci sono patologie pregresse. Magari se non ci si fosse ammalati, la malattia pregressa si riusciva a gestire. E come per il Covid ci sono persone con un quadro tremendo anche se erano sane. Si faccio paralleli magari azzardati. Ma a me piace tantissimo la tutela e la prevenzione. E cosa accadrà alle nostre menti, non lo sappiamo come non sapevamo nulla del corona virus fino a qualche mese fa. Perché è una situazione che non ha precedenti così ben articolati. Gli studi si focalizzano su quarantene più brevi. Non mondiali. La Spagnola non aveva la globalizzazione del digitale. Possiamo aspettare e vedere cosa capiterà.

Ma io fantastico  che come per la positività al Covid senza sintomi, ci sia una positività alla situazione senza sintomi. Un’apparente percezione di normalità intorno a quanto ci sta accadendo, con effetti non ancora prevedibili.

Ci saranno ripercussioni a livello psicologico. Si. Assolutamente. Per tutti? No. Assolutamente. Alcuni ne trarranno un enorme beneficio? Si. Assolutamente.

Perché?

Perché la struttura mentale e psicofisica di ciascuno di noi è diversa. Ognuno ha la sua storia di vita alle spalle. E su quelle spalle uno zaino di strumenti che possono andar bene o meno in questo preciso momento. Alcuni possono utilizzare tutte le risorse per costruirsi un riparo, procurarsi cibo, adattarsi alla vita nuova. E poi non riuscire più a tornare nella vecchia realtà. Ma in fondo nemmeno sappiamo se e come ci torneremo. Per il semplice fatto che non abbiamo una sfera di cristallo in grado di dirci cosa accadrà domani. Altri si troveranno uno zaino pieno di strumenti inutilizzabili in questa situazione. E sarà magari difficilissimo sopravvivere nel qui ed ora ma torneranno a star bene fase dopo fase. Altri staranno bene qui, ora e domani.

Cosa posso fare?

Monitorarmi. Ascoltarmi. Siamo diventati così bravi a notare uno starnuto ed un colpo di tosse che possiamo farlo anche con un eventuale sbalzo di umore. Una modalità diversa, rispetto al mio storico, di comportarmi. Un sorriso in meno. Un fastidio nella pancia in più. Ascoltare. Sentire. Osservarsi. Evitare di pensare che io ce la faccio da solo perché si. Imparare da questa situazione che le cose possono accadere. Che non è colpa mia. Che accade non perché non sia forte abbastanza o non abbia assunto abbastanza vitamina C. Accade.

E gli asintomatici positivi? Posso anche piacevolmente pensare, che la situazione abbia avuto su di loro un effetto di risposta lieve. Che i fattori di protezione fossero adeguati in quel momento, che la sofferenza non si percepirà e si tornerà all’omeostasi nel tempo.

Che diavolo è un fattore di protezione?

E’ una sorta di difesa immunitaria. Lo so già che qualcuno mi farà la punta. Ma sono sempre le 7 del mattino mentre scrivo e credo di aver sognato Esplorando il corpo umano tutta la notte. Perdonatemi. E’ un cuscinetto. Che protegge da tutte quelle situazioni di disagio che possiamo sentire. In questo caso i fattori di protezione possono essere la gestione del tempo in maniera adeguata, l’uso di tecniche di meditazione o rilassamento, attività manuali che danno gratificazione (oh dopamina, dopamina sei tu dopamina?) capacità di vivere il qui e ora, buone capacità di riconoscimento dei propri stati interni, sole (si. pure lui), attività fisica, condivisione sociale (attraverso piattaforme social), possibilità di avere momenti di solitudine in casa propria (bizzarro vero? ma potersi ritagliare 20 minuti in cui non si hanno figlie marito moglie compagni nonne zii genitori, addosso, è fondamentale). Quei famosi strumenti nello zaino di cui sopra.

Dai Manu concludi, che tra poco inizia la scuola.

Non ci sono conclusioni. Stiamo ancora scorrendo. Non posso imporre il bricolage a me stessa, figuriamoci agli altri. Scaviamo nello zaino, cerchiamo dentro e qualcosa riusciremo ad adattare. E se non ciriusciamo da soli, io e i miei colleghi siamo un esercito formato per cercare negli zaini. Siamo al 4 maggio. Ma non è finita. Pessimista. No. Realista. La partita si sta ancora giocando. Concludo andando a fare un caffè. Guardando fuori dalla finestra. Avete notato quanto sia bello il cielo in questi giorni?

 

 

Manuella Crini, psicologa e dottore di ricerca in psicologia dello sviluppo e dell’educazione. Non mi sono dimenticata della fascia 0-18, penso costantemente a loro. E’ che le parole pesano e prima di poterle mettere su carta, devo ponderarle come ingredienti della ricetta di un dolce.

Senza categoria

di Manuella e dei suoi 5 minuti

Perdo facilmente il conto, dei giorni delle ore, dei calzini nel cassetto. In questo tempo così svuotato e difficile ho trovato una continuità essenziale nei 5 minuti che ho condiviso con voi. Ho trovato la continuità lavorativa anche mantenendo attivo il piano della progettualità, la memoria prospettica, quella che rimanda ad un futuro incerto e difficile. Quindi grazie Leo, grazie Fabio, grazie a tutto il gruppo BeGood, che non potendo entrar noi in palestra, sono entrati loro nelle nostre case. A tutte le ore, con il sorriso, il movimento, la gioia e le sfide.

grazie