#pensieriallacaffeina

La mia personalissima non richiesta. Sanremo e la normalità

Ho anche paura del buio
Se faccio a botte le prendo

Lucio Corsi

Ha vinto quella canzone che suona benissimo con una bottiglia di vino vuota, che rotola sulla spiaggia. Quella che fa ridere piangere e non fare l’amore. Perché sei troppo impegnato a divertirti ed esser triste. Ha vinto quella che ha parole semplici. Normali. Quella che sa di emozioni che tutti nella vita abbiamo sentito. Senza rabbia. Solo nostalgia. Quella balorda. Che se non sei ligure o abiti poco più in là, non sai davvero cosa significhino quelle lettere in sequenza. Ha vinto la normalità perché è normale sentirsi così. È normale che ci manchino i momenti semplici e di vita quotidiana. Parole che come un libro sfumato ci permettono di metterci dentro quel volto. Quel profumo, quel sorriso, quella carota che cade dal tavolo mentre la sbucci.

Ma la normalità che ha vinto più di tutti, ha a che fare con due pacchetti di patatine dentro alle spalline. Geniale nella sua semplicità. Quella normalità fatta di faccia bianca capelli lunghi abito fuori tempo e sempre a tempo. Fatta di parole difficili di voli pindarici. La normalità che appartiene a ciascuno di noi ma che appiattiamo nel voler essere normali con gli altri ma la normalità appartiene a se stessi. Nessun battito batte come gli altri. La normalità dovrebbe essere esagerata nella sua essenza. Perché dovrebbe tirare fuori quello che è dentro. Dovrebbe ribaltare la pelle come se fosse semplice vedere quello che uno ha sotto. Vederci da fuori per come siamo. Colorati tristi felici delusi sempre sulla linea di partenza senza aspettare un arrivo.

La normalità è Topo Gigio. La normalità è Masini che si ricrede sulle sue elucubrazioni sulle denunce solo perché hai perso la pazienza.

Che poi la musica, la musica, la musica e le parole toccano la soggettività. Quello che fanno suonare dentro ciascuno di noi è unico. Speciale. Normale.

#pensieriallacaffeina

Cosa hai fatto quest’estate? Ho fatto sopravvivere il basilico

Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla. Ennio Flaiano

Le stagioni influenzano l’umore. Non in modo uguale per tutti. Non in modo patologico per tutti. C’è chi abbassa notevolmente le sue capacità in estate, chi in inverno, in un’altalena del genere umano che diventa quell’onda violenta dell’Acquafan dove pelle e sudore vengono spinti inermi in una gigantesca massa trasparente.

Ma se possiamo non performare durante l’inverno, tra sci e mare proibito, dobbiamo in estate. Dobbiamo dire in pubblico quante città abbiamo visto. Quanto cibo abbiamo assaggiato. Quanto abbiamo sudato per parcheggiare o parlare in una lingua ignota. Pressione sociale. Pressione social.

Dobbiamo essere abbronzati. Dobbiamo essere magri. Dobbiamo essere belli e dobbiamo girare il mondo.

Io salvo il basilico. Facile farlo quando fuori il sole non corrode l’asfalto. Quando l’afa non invade le vie respiratorie e non brucia i polmoni. Ma è quando il gioco si fa duro che il basilico può morire.

Ed è facile prenotare un biglietto aereo e scappare altrove, ma salvare il basilico no. Subito appare bello e felice nel suo vaso. Ma dopo poco, smette di esser bello. Diventa impegnativo. Devi dosare acqua luce gas libri auto viaggi e fogli di giornale. E salvare il basilico è quel che serve dell’estate.

Fuori da ogni metafora. Lontano dal pesto fatto senza nocciole e altre schifezze, le vacanze, il tempo vuoto, è il tempo per prendersi cura di se. Di quel basilico fragile e delicato. Per capire dove e cosa si vuole essere. E anche dove si vive e non solo si sopravvive, in attesa di un po’ di acqua o di un paio di nuvole passeggere.

Le ferie, le vacanze, l’origine perfetta del significato e la perdita completa e svuotante fatta di foto e di ora tocca a te su Instagram. Riprendiamoci il tempo. Quello della cura. Della pazienza. Della clinica su se stessi.

Dove sei andato quest’estate? In un viaggio dentro di me. Portando a spasso il corpo intriso di mente in luoghi meravigliosi. Siano essi stati la camera da letto, il divano, la punta più estrema di un mondo rotondo.

Vacanza. Essere liberi.

Riprendiamoci il senso della vacanza. Salviamo il basilico.

Ovunque tu abbia passato le tue vacanze, fosse anche in ufficio a pregare per un pinguino più potente, qualcosa è accaduto. Qualcosa è cambiato.

#pensieriallacaffeina

Milgram, illuminaci. Dicci, perché siamo stati crudeli con Imane?

Forse siamo delle marionette – delle marionette controllate dai vincoli della società

Nasco outsider. Esco con gli stivali anche in estate. Mi tingevo di nero quando tutte erano bionde. Non so cosa sia la moda. Faccio una ricerca su pubmed prima di dire la mia. Non ho mai amato omogeneizzarmi. Come il latte, che subisce quel processo per non lasciare l’alone sulla bottiglia. Puro valore estetico. Amo la sostanza.

Quindi quando mi sono trovata a studiare la psicologia delle masse, i processi dei gruppi, ho faticato. Tanto. E la ricerca mi ha aiutato tantissimo.

Milgram.

Genio. Studia un esperimento pazzesco, per capire come ci comportiamo di fronte agli ordini delle autorità. Quelle percepite come tali. Oh erano gli anni 60. Datemi tempo, ci arrivo.

L’esperimento è semplice e doloroso. Il soggetto sperimentale, ignaro del fatto che dall’altra parte ci sia un attore, infligge scosse elettriche di portata sempre maggiore su ordine di un comandante.

Cazzo e gliele da. Non si ferma. Anche quando l’altro sta visibilmente soffrendo (finge, ma finge bene).

Milgram spiega tantissime cose con questo esperimento. Del resto la guerra è ancora qualcosa su cui ci si interroga. Quanto dolore dato? Quante morti? L’esperimento nasce per spiegare il genocidio. O meglio, perché in tanti abbiano seguito ed eseguito ordini senza che la loro etica, la loro morale, sia intervenuta a dire che no, che insomma, ma ci siamo?

Milgram mi è venuto in mente oggi. É l’autorità è Internet. Internet comanda. E il popolo risponde.

E così milioni di persone hanno massacrato una ragazza di 25 anni. La cui unica colpa par esser quella di gareggiare alle Olimpiadi. È un uomo. È in transizione. È sotto testosterone. È una scia chimica.

Milioni di commenti. Contro un essere umano. E nessuna scusa. Perché padre Internet è il responsabile. La colpa è la sua. Già perché se non mi sento responsabile, se decide qualcuno (o qualcosa) io eseguo. E la colpa non è mia. La mia morale è a prendere il sole e non si interroga se quello che sto scrivendo (e le parole feriscono più di una lama) può far male.

Eseguo.

Ti chiedo scusa io Imane. A nome di tutti. Sperando che tu (ma diciamocelo, anche la Carini che si è trovata in un tunnel di pressioni devastanti) possa andare avanti a testa altissima.

#pensieriallacaffeina

Parrà bizzarro, ma è l’amicizia.

Qual è la qualità che apprezzi di più in un amico?

Oggi non parlerò di neuroni. Almeno, ci proverò. Oggi parlerò di me. Di un viaggio in macchina, io e me, una delle mie persone preferite al mondo. Con cui dialogo spesso durante i lunghi viaggi. Anche se ho sempre preferito dialogare con me nel doblo. Lui aveva tanto spazio per tutti i miei pensieri. La mia 500 ne tiene molto pochi, e forse, è bene così.

Foto di repertorio

Uscendo da una galleria, fuori dal tunnel, ho avuto un insight. Ho sempre adorato gli insight. Sono come il Natale, quando arrivano, arrivano. Illuminazione. Che poi mi ricorda Stephen King, una splendida festa di morte, shining. Con un finale meno splatter. E un proseguo più divertente. Ho capito di me che la mia vita ruota intorno all’amicizia. Quella simile alle piante grasse, che metti nei vasi, anche piccoli, e te ne dimentichi senza dimenticartene. Perché stanno lì a guardarti ogni mattina mentre bevi il caffè. Senza implorare acqua di continuo. Io faccio morire anche le piante finte. Ma cazzo, sono una buona amica. E i miei amici sono buoni con me.

Giorni lunghi questi. Fatti di ospedali medici infermieri inaspettate sorelle Alma vicine di letto. Giorni di amici che ti tengono compagnia. Perché quando serve le piante grasse fioriscono e non ci sono cazzi, quando fioriscono le piante grasse sono uno spettacolo di colori e bellezza.

E anche se il baricentro di Manuella sono Viola e Rebecca, e il mio equilibrio si sposta con il loro, e io non voglio null’altro che farlo oscillare con loro, intorno ai loro spazi. Alle loro vite. Alle loro vie e canali. Alle piazze e alle strade e alle piazzole di sosta quando ci arriveranno senza benzina e con la batteria scarica. Anche se, mentre oscillo nel mio tempo e nel mio spazio le mie piante grasse stanno lì. Più o meno silenziose. A dirmi che faccio cazzate o sono bravissima. Ma io non sono mai bravissima. Sono io. E loro sono le mie piante grasse.

Mi piacerebbe pensare di aver curato con intensità ciascuna pianta, ma no. Sono un vaso di rose del deserto che inesorabili invadono il mio vaso. Che si moltiplicano. Che cercano spazio. Che fioriscono.

L’ho fatto così. Insight dopo insight. Chimica su chimica di quella chimica che è amore. Perché della vita, la mia, di quelle degli altri ascolto le storie affascinata, è che il mio grande Amore sono i miei amici. In quel continuo voler stare ostinatamente in un’adolescenza che non voglio lasciare andare. Perché è bella, volubile, con tanta energia e tanto spazio bianco su cui scrivere le storie.

La mia famiglia tradizionale siamo io, le mie figlie e tutte le mie piante grasse. Le mie storie d’amore sono fatte per non finire. Perché odio lasciar andare.

Grazie. Sempre.

Vi amo

#pensieriallacaffeina

Ho detto no.

Qual è stata l’ultima volta che hai assunto un rischio? Com’è andata?

Due lettere. Che hanno un potere immenso. Perché sono una matita che disegna intorno a noi i confini. Il chi sono, cosa voglio, cosa amo e come lo amo.

Dire no è rischioso. Perché si perdono costantemente persone intorno a noi che vogliono sentire sempre il nostro si.

Bisogno di piacere. Bisogno di valere. Bisogno di contare per qualcuno. E se dico no, lo perdo. Così mi annullo, non mi ascolto, cerco nelle parole e nei gesti dell’altro quello che può far piacere. E non è un altro a caso. È un altro importante. Qualcuno che vale, che conta, da cui dipendo. E mi strutturo in qualcosa che non sono io. Lascio la matita agli altri. Che mi disegnino pure.

Si, perché si parte da uno e poi diventano nessuno e centomila. Sempre altri a disegnare i miei confini. E il mio vero io, di quello me ne fotto. Non lo ascolto. Lo ignoro. Costantemente. Ma c’è, segreto e nascosto sotto milioni di “si”. Urla in qualche modo la sua presenza. Forte. Fortissimo.

E se ascolto quel sussurro che arriva dal mio profondo, dalle interiora, dalla pelle, mi ritrovo.

Il gesto eroico, per chi funziona così, e non siamo tutti uguali, è il primo no. Quello che funziona. Quello che mi definisce. Quello che mi fa sentire.

Li comincia la salita. Che fantastica storia la vita.

Il primo importante della nostra vita, è il caregiver. Ma nella vita ci sono Altri importanti. Quando un Altro importante per noi, è incostante nel nostro bisogno di amore, crediamo di non andare bene. E ci adattiamo alle sue richieste per non perderlo. Perché è un bisogno l’Amore. Fondante. Fondente. Ma anche diffuso. L’amore è ovunque. Ha tante forme.

Se penso all’Amore, forse credo anche in Dio.

#pensieriallacaffeina

Come se ridere fosse solo allegria

Cosa ti fa ridere?

Una piccola mandorla nel cervello. Amigdala. Con tante funzioni da sembrare un cervello matrioska. Produce adrenalina. Quella roba che da potere e non fa sentire il dolore.

Contrae i muscoli. E fa ridere. Perché anche per ridere serve quella contrazione. Involontaria. E allora respiri. Smetti di ridere. Entri in contatto con le tue emozioni e a volte ti disintegri. Così la risata ti salva dalla disintegrazione. Tiene insieme i pezzi di te.

Mi fa ridere stare nello stress. Nell’imbarazzo. A volte nel dolore.

E allora rido. Dissimulo. Gestisco lo stress. Ignoro volontariamente o meno quello che mi accade.

Dietro una risata ci sono tanti mondi. A volte dolore. L’abito non fa il monaco e la risata non fa la felicità.

#pensieriallacaffeina

I compiti a casa

Scrivi una lettera a te stesso a 100 anni.

Nella mia stanza accadono cose. In ogni stanza della mia vita accadono cose. Ma nella stanza dello psicologo accadono cose anche agli altri. Anche a me per dirla tutta. Ma questa è un’altra storia.

Nella mia stanza ci si trasforma. Confrontandosi con se stessi. Con quello che si è stato e con quello che si diventerà. Con la mia assurda pretesa di rimanere nel qui e ora. Quel magico spazio dove passato e futuro collassano in un buco nero che diventerà supernova. Non mi interessa sapere se è così o meno. Mi piace pensarlo.

Ma quello che accade nella mia stanza, accade nel tempo dopo. Nel tempo fuori. Come per ogni cibo che si mangia. Accade in digestione.

E in quella digestione lascio spesso i compiti a casa.e la lettera al se stesso invecchiato, c’è spesso. Quella lettera che parla di noi. Che aiuta a capire ora chi vorremo essere, ma anche chi non vogliamo. E quello sta in ciò che non raccontiamo. Perché il non detto ha un potere immenso. Racconta storie e favole silenziose. Parlando di noi.

E nel confronto possiamo fare collassare tutto. E siamo di nuovo nel prendere. Potenziali modi di essere noi a 100 anni.

Provo a sentire il futuro. Quello incerto. Quello che immagina il sole senza pioggia, quello che vuole un mondo senza guerra. Quello che si vede con nipoti, nipotini, unə compagnə rugosə cui stringere forte la mano e vedere il film della propria vita insieme. I capelli bianchi. O semplicemente ancora qualche capello. La somma di tutti i se.

Cara Manuella, chi sarai diventata a 100 anni? Non sarà noiosa la vita senza un lavoro? Avrai foto sparse di te che raccontano di quanto sia bello il mondo? Vivrai al caldo ogni giorno guardando il mare? Spero di si. Anche che ti annoierai. E nella noia inventerai racconti. Di sicuro non avrai imparato a disegnare. Ma a far sognare, spero di sì.

Manuella Crini

Psicologa

#pensieriallacaffeina, Senza categoria

Un epitaffio. Sepolcrale. Soffrire sperando.

Stai scrivendo la tua autobiografia. Qual è la frase di apertura?

La frase di apertura è il pianto. Quando i polmoni iniziano il loro arduo lavoro. Che il cordone non impedisce nemmeno se si annida intorno al collo. Perché semplicemente prima, non respiravamo.

Ma è la frase finale quella che conta. Il riassunto di una vita intera in sintesi. Nasci. Muori. È quello che sta in mezzo che conta. Hai vissuto secondo i tuoi valori? Sei stato felice? Hai amato con tutte le farfalle?

La frase di apertura della mia vita dovrebbe essere il sunto finale della mia vita. La parola fine che precede l’inizio.

Perché anche le nella vita l’ansia è spesso fedele compagna, nessuno vorrebbe esser dentro un thriller. Ma nemmeno nel romanzo rosa. O nelle favole. Perché resta sempre tutto a metà. Ma la vita è dopo il caso risolto, dopo aver trovato l’amore, dopo aver indossato la scarpetta. È lì che inizia la salita. E il panorama è bellissimo.

Quindi dovrò aspettare che la vita mi scorra davanti. Sperando sia un bel film. Con punti di noia e risate. Con momenti in cui servire e tornare indietro per capirli davvero. Pentendomi di non aver imparato prima a restare qui e ora. Sempre.

#pensieriallacaffeina, Senza categoria

Somatotropina

Quali esperienze nella vita ti hanno aiutato a crescere di più?

Dormire.

E potrebbe finire così. Con una parola. Perché pensiamo troppo spesso che subire traumi aiuti a crescere. Che grande cazzata. Per crescere in modo sano, non solo aiutando la fisiologia, è necessario avere esperienze di vita gratificanti e non traumatizzanti. Avere una base sicura. Genitori capaci di essere un porto in cui tornare. Che non siano spazzaneve o neglettanti. La normalità è quello che aiuta nella crescita sana. Il resto accelera o rallenta il raggiungimento di un equilibrio.

Se il sonno della ragione genera mostri, il sonno delle emozioni genera adulti mostruosi.

Ogni esperienza segna. Ma le cicatrici spesso fanno male. E non sempre dai traumi si guarisce.

#pensieriallacaffeina, Senza categoria

Adolescenza.

Che consiglio daresti a te da adolescente?

Che bella l’adolescenza. Quella trasformazione continua e verso la quale siamo totalmente impotenti.

Qualsiasi cosa venga detto ad un adolescente, viene tradotto e riletto. Perché spesso c’è il bisogno di fare l’esatto opposto. La madonna con la pistola. Il mio compito arduo di un’adolescenza emo era quello di diventare me stessa. E da bionda diventai nera. Poi blu. E parte di me lo è ancora. Insieme alla me bambina, c’è la me ribelle. Che andava bene a scuola e faceva battute irriverenti. E nei confini elastici che i miei genitori mi mettevano, forse proverei a dirmi che va bene così. Rischiando l’effetto opposto. Perché tanto non mi ascolterei. Mi vedrei vecchia e antipatica.

Farei parlare Margared Mead. Che con i suoi 23 anni ha avuto l’onere e l’onore di andare fuori dalla globalizzazione a conoscere quel periodo della vita al quale tutti vorremo tornare. Per restare o per cambiare. Dove le sinapsi aumentano e poi decrescono. Dove nemmeno i neuroni hanno pace. Dove tutto è in potenza, e aspetta solo di fiorire. Un’apoteosi indomita di fede e rigore che si arma controvertendo le regole.