psicoforense

dal ci eravamo tanto amati al sul webbe ci siamo vendicati. Il revenge Porn.

Il 23% delle donne intervistate ha dichiarato di esser stata minacciata sul web almeno una volta.  Il 39% ha ridotto la presenza sui social o si autocensura.            Amnesty International

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Revenge Porn è una di quelle parole che entra nell’uso comune, che fa pensare alla condivisione in rete di foto intime da parte di una persona che si è voluta vendicare di un rapporto finito male. Nel senso più ampio ricade anche la minaccia di pubblicazione, può essere presente o meno un ricatto. La foto può essere stata scattata con il consenso o di nascosto. Può anche essere fornita, in vivo o in remoto.  

La cronaca ha fatto il suo sporco dovere facendoci conoscere i volti delle donne che a causa del revenge porn si sono tolte la vita. E poi ci sono i casi meno noti, quelli che circolano attraverso chat, ma non così popolari da calcare l’onda dei telegiornali. Ciò non vuol dire che le vittime non abbiano pagato le loro conseguenze in costi sociali e psicologici. Non ti viene in mente nessuno? Non ti è capitato di vedere o di sentir parlare del video di quella ragazzina che ha fatto sesso orale con uno appena conosciuto in discoteca ed era ubriaca? O di quello che ha mandato la foto del suo gingillo sperando di far colpo e la ragazza di turno ne ha riso al bar con le amiche? Beh. Se non ti è mai capitato, credo tu sia fortunato. O vivi in una realtà ancora pulita o sei molto ingenuo (in senso buono) e queste cose non entrano nel tuo repertorio di questioni cui posare la tua attenzione. I numeri in questo caso parlano poco, perché molte vittime di questa violenza meno fisica, non sporgono denuncia. 

Ho tentato un piccolo esperimento social prima che la Camera dei Deputati approvasse la  modifica del codice penale con l’inserimento del revenge porn. Non ha la valenza di una ricerca scientifica, ovviamente, ma mi serviva per comprendere il pensiero ingenuo (in seno buono, ingenuo è una parola meravigliosa, che mi ricorda i quadri naïf appesi in salotto). Nella semplicità della mia domanda, chiedevo che cosa avrei dovuto fare se qualcuno avesse fatto circolare mie foto nuda. Le risposte sono state variopinte. La cosa che più mi ha turbata sono state le richieste della foto stessa. Cioè mi fermerei a questo punto. Io ragazza ingenua (nel senso buono) condivido una mia foto o lascio che la persona con cui condivido il mio corpo, ne scatti una. Mi fido. Io ne farei uso privato e mi aspetto che l’altra persona si comporti nel mio stesso modo. Lui la rende pubblica. In me si scatenano una tempesta di sentimenti e di emozioni, sono disperata. Chiunque, comprese le persone con cui lavoro possono vedere il mio corpo nudo. Chiedo aiuto. E tu mi chiedi la foto? Il primo pensiero è stato che se nessuno avesse interesse a guardar la persona alla gogna, la gogna sparirebbe. Il revenge porn trova un terreno fertile nella natura umana. Scadenfreude. Rilasciamo dopamina. L’ormone della gratificazione. Innanzitutto non è toccato a noi e questo ci da un certo sollievo. Se poi la persona in questione ci sta pure un po’ antipatica, ne traiamo un maggior piacere. In più si tratta di  materiale erotico, e il materiale erotico, piace. 

Le altre risposte si possono macrocategorizzare in due tendenze: la prima tendenza suggerisce di rivolgersi a qualcuno per far una denuncia, mentre l’altra tendenza, se da un lato spingerebbe la persona a far denuncia, dall’altro l’accuserebbe di ingenuità (in senso cattivo questa volta) perché te la sei cercata. E’ un’altra fetta di opinioni popolari che mi spaventa. Perchè il confine tra lo stupro fisico e l’abuso psicologico, sebbene sia marcato dalla presenza di un corpo, è un qualcosa che non è così netto. Se fai male alla mia psiche, fai male anche al mio corpo. E potremmo parlar per ore di psicosomatica o di psiconeuroendocrinoimmunologia, ma credo che sia chiaro a chiunque che un’abuso psicologico faccia male. Fa vivere male. Devasta. Non meno di quello fisico. E dire alla vittima che se l’è cercata, non facilita il percorso di elaborazione di quanto accaduto.

Fingiamo di essere la malcapitata. O il malcapitato. La persona insomma. Quella che si trova su tutti i social ogni canzone mi parla di te e tutti sanno dove stanno i miei nei che di solito sono sotto l’elastico delle mutande (chiariamo anche a te lettore della gogna, che non verranno diffuse foto mie con i nei a vista, per cui, non insistere dopo che avrai  letto questa roba a chiederemo o a dire “peccato”), sarebbe utile una risposta da parte della società nei confronti di chi ha agito in modo scorretto, e sarebbe utile si facesse attraverso un percorso di denuncia che porterebbe a valutare se sussista o  meno un reato.

Il pensiero contenuto nelle righe precedenti è stato scritto prima del 2 aprile, una data che segna un passaggio importante, anche se attendiamo che il Senato ne dia approvazione. Innanzitutto il reato verrebbe collocato all’interno della Sezione dei diritti contro la libertà morale, anche se ricadrebbe anche all’interno di diverse offese. La punizione è per coloro non che detengono il materiale, ma che ne fanno un uso non consentito dalla persona che ha ceduto il suo “materiale” a contenuto sessuale. Le foto o i video insomma. Senza addentrarmi oltre nelle questioni più di natura giuridica, il problema resta sempre quello legato al consenso tacito, e al contenuto sessuale delle immagini (un’anticchia che appare dalla mutande abbassata, è un contenuto sessuale o non lo è?), ma a mio parere, il problema più grande è tutto quello che sta dietro a questo reato.

Cosa ci spinge (cioè non tutti per fortuna) a far del male in questo modo ad una persona che si fidava tanto e ingenuamente di noi? Perché le persone intorno invece che provare schifo e vergogna per un gesto simile, fomentano il tutto? Intervengono nella risposta sempre fattori individuali e di personalità, che difficilmente si scartano da quelli del contesto sociale e relazionale in cui siamo immersi. Serve una buona educazione che integri e non demonizzi tutte le nuove tecnologie. Che dia responsabilità e consapevolezza. Penso sia la tutela più grande.

La dott.ssa Manuella Crini è psicologa giuridico-forense e si occupa di consulenze di parte.

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